Non era un attore del tipo monumentale/esuberante, non sbaragliava i colleghi in duelli da performaces e non si imponeva nelle inquadrature. Ma era un interprete straordinario, al servizio sempre della storia e del regista, sensibilissimo nelle pieghe meno convenzionali del carattere del personaggio, impeccabilmente efficace (mai sbagliato una parte o una battuta!), signorile persino quando il ruolo gli imponeva di abbassarsi – e lo faceva con divertita voluttà – nel vizio e nell’abiezione. Un intellettuale cosmopolita parigino, un maestro che conquistava la scena e spettatori quasi seducendoli con discrezione. Michel Piccoli (27 dicembre 1925–12 maggio 2020 ) ha impreziosito, con la sua straordinaria versatilità, il meglio del cinema europeo, francese e italiano soprattutto, mentre con Hollywood invece non si è mai preso: parlavano due lingue troppo diverse, prima di tutto culturali e ideologiche.
Cinque titoli sono molto probabilmente pochi (su un totale di circa 177 interpretazioni) per testimoniare la sua importanza e versatilità, tra cinema d’autore e deliziose scampagnate tra i generi (specie i gialli e i noir, come Diabolik di Bava o 10 incredibili giorni di Chabrol), ora uomo comune con problemi, ora in panni famosi (fu Sade di Bunuel in la via Lattea, Buffalo Bill in Non toccate la donna bianca di Ferreri, Luigi XVI in Il mondo nuovo di Scola). Peraltro le regole del gioco sono queste ed ecco così “solo” cinque gioielli indiscussi della sua prestigiosa filmografia.
IL DISPREZZO (1963) di Jean Luc Godard. Dal romanzo di Moravia, una riflessione sul mestiere del cinema. Con M.P.,sceneggiatore francese sposo di Brigitte Bardot, incaricato di riscrivere l’Odissea per Fritz Lang (nei panni di se stesso). Equivoci e maliziose interpretazioni provocheranno il progressivo disamore della donna e il suo concedersi alla corte del produttore (Jack Palance). Set straordinari (tra cui la Villa Malaparte a Capri), una produzione tribolata e rimontata, un film che oggi è considerato un vero cult. Piccoli spicca giocando di finezza in una caratterizzazione che ricorda lo stesso ispido cineasta.
BELLA DI GIORNO (1967) di Luis Bunuel. La sessualità contorta della agiata Severine (Catherine Deneuve) trova sfogo e terapia in una casa di piacere, accettando qualsiasi perversione dei suoi occasionali amanti. Piccoli è l’amico del marito che la indirizza verso la magione, figura finto irreprensibile dietro cui si nasconde un ipocrita sessuomane. Bunuel non amava il romanzo di Joseph Kessel, ma lo trasformò in un enigmatica commedia erotica dell’inconscio, scandalosa ma anche capace di vincere il Leone d’Oro a Venezia. Nel 2006 Manoel De Oliveira ne girò una sorta di omaggio/sequel, sempre con Piccoli ma senza la Deneuve.
DILLINGER E’ MORTO (1969) di Marco Ferreri. Affermato designer con moglie splendida e giovane (Anita Pallenberg) trova a casa sua una vecchia pistola. Ci gioca e si trastulla con l’idea di usarla. Contro di sé o contro la compagna? Feroce e grottesco dramma psicologico di denuncia dell’alienazione che gli oggetti di consumo, la merce, provocano nello spirito dell’uomo contemporaneo. Un esercizio di stile di rara e preziosa coerenza. Tutta la caratterizzazione del protagonista (Glauco) è farina della riflessione di Piccoli, a cui il cineasta milanese aveva dato carta bianca. Tra l’altro segnò l’inizio di una fruttuosa collaborazione tra i due.
TRE AMICI, LE MOGLI E (AFFETTUOSAMENTE) LE ALTRE (1974) di Claude Sautet. A cavallo dei 50 anni, alcuni amici si barcamenano tra matrimoni più o meno infelici e una solidarietà virile sempre rinnovata a ogni fine settimana nella casa di campagna di uno di loro. Commedia corale che è inevitabilmente quadro amarognolo della sua epoca, con un cast notevole che trova un affiatamento speciale (ricordiamo almeno Yves Montand, Serge Reggiani, Gerard Depardieu, Stephane Audran, Umberto Orsini). M.P. è Françoise, marito che trascura la moglie e cornuto consapevole. Sautet, come è suo solito, eccelle anche qui nei toni delicati e complici.
HABEMUS PAPAM (2011) di Nanni Moretti. Riuniti per eleggere il nuovo Papa, i cardinali scelgono il francese Melville. Una sorpresa per tutti, specialmente per lui che infatti, in preda al panico, fugge prima della sua proclamazione ufficiale. Così, da una parte si finge che il “quasi” Pontefice sia ancora in Vaticano, dall’altra ci si lancia alla sua ricerca. Due personalità laicissime, come il regista e l’attore, costruiscono con il massimo rispetto una storia che pur nel suo tono in punta di penna, affronta questioni morali non facili, tra rituali tradizionali e modernissime debolezze umane. Piccoli vinse così un David di Donatello, proprio con il suo splendido canto del cigno.
Addio a Michel Piccoli, monumento del cinema francese ed europeo