IL FATTO
Paul, bianco ed ebreo, e Johnny, afroamericano, sono due ragazzini divenuti amici nella New York razzista e classista degli anni Ottanta, pronti a cacciarsi insieme nei guai animati dai medesimi desideri di ribellione. Per questo i genitori di Paul decidono di separarli, mandando il figlio in una prestigiosa scuola frequentata solo da bianchi ricchi e viziati. Persino Paul si accorge di non aver difeso l’amico dalle ingiurie dettate dal colore della sua pelle e sarà suo nonno Aaron a insegnargli che solo qualche decennio prima anche gli ebrei venivano perseguitati, dandogli il coraggio di difendere chi è discriminato.
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L’OPINIONE
Dopo aver vagato tra la foresta amazzonica e lo spazio profondo, James Gray torna a casa, nella sua New York già raccontata in Little Odessa, Two Lovers e The Yards, per ripensare alla propria infanzia, a privilegi non meritati, al diverso peso di due vite, quella di un bianco e quella di un nero («io non conto niente», dice il ragazzino afroamericano in una sceneggiatura scritta prima dell’omicidio di George Floyd e della nascita del movimento Black Lives Matter), al razzismo dei salotti liberal dov’è cresciuto, alla perdita di memoria storica in un periodo cruciale per l’America, quello dominato da Reagan e dalla sua ossessione per l’apocalisse, dove affondano le radici alcune delle lacerazioni politiche e disuguaglianze sociali di oggi. E pure la fine della Hollywood più creativa e coraggiosa. È un film amarissimo quello di Gray, duro e asciutto, senza conforto perché dal quel crepuscolo non si è ancora usciti e certi debiti con il passato non sono stati mai pagati.
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