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We Live in Time, John Crowley: «Ho unito Andrew Garfield e Florence Pugh con l’istinto»

In anteprima alla Festa di Roma l'atteso dramedy romantico che unisce Florence Pugh e Andrew Garfield

Tra i titoli più attesi di questo autunno (in sala dal 28 novembre con Lucky Red) We Live in Time di John Crowley arriva in anteprima alla Festa di Roma nella sezione Grand Public, dopo la presentazione del Toronto International Film Festival. Un dramedy romantico, che fonde il dramma con momenti di quotidiana comicità e tenerezza, firmato dal regista di Boy A (2007), Brooklyn (2015) e Il cardellino (2019) e interpretato da Florence Pugh e Andrew Garfield.

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Londra inedita di We Live in Time, l’amore e il tempo che scorre

Attraverso una struttura temporalmente non lineare, il film, ambientato a Londra, racconta dell’incontro tra Almut e Tobias, lei una giovane chef in attesa, lui reduce di un matrimonio fallito. I due si innamorano, costruiscono una casa e diventano una famiglia, mentre intraprendono un percorso scandito dalla dittatura del tempo e imparano ad apprezzare ogni attimo del loro amore. Un intreccio cronologico non convenzionale, quasi concentrico, al quale il regista ha lavorato in fase di montaggio, come ci ha spiegato nel corso di un incontro stampa. «In sceneggiatura avevamo una struttura divisa in tre parti, ma il girato, si sa, non coincide quasi mai con il risultato finale. Ci siamo trovati al montaggio con due splendide interpretazioni che, messe insieme linearmente, funzionavano meno. Per questo abbiamo voluto riscorporare il tutto. Ci è voluto tanto tempo per mantenere un ritmo e dei contrasti emotivi che potessero passare dal racconto di una giornata, a quello di cinque mesi e cinque anni. In questo ci ha aiutato molto la musica, che ha garantito un’unicità di tono al film». 

We Live in Time

John Crowley aveva già lavorato con Andrew Garfield in Boy A, ma mai con Florence Pugh. «Li ho uniti grazie all’istinto» spiega il regista. «Sono due attori molto diversi tra loro, ma entrambi hanno un’immensa ambizione creativa e sono accomunati dalla voglia di fare il miglior lavoro possibile. Abbiamo fatto due settimane di prove al termine delle quali scalpitavano come cavalli prima di iniziare una corsa. Ho dovuto faticare per trattenerli». L’alchimia tra loro è nata fin da subito e «si è mantenuta per tutto il film fino a raggiungere picchi di profondità» soprattutto in determinate scene, come quella del parto, che Crowley ci ha descritto nel dettaglio. We Live in Time

«La scena del parto è ciò che mi ha spinto a fare il film» dice «perché mi ha fatto ridere fino alle lacrime, nonostante la materia trattata». Quella scena, spiega Crowley, «incapsula tutto il senso del film». È stata girata in due giorni molto intensi durante i quali un’esausta Florence Pugh, che indossava una pancia prostetica, «ha simulato il parto circa 8 volte, con l’assistenza di una educatrice. Anche il panico che vedete sulla faccia di Andrew è reale». Alla fine di quelle riprese, che han visto coinvolto anche un neonato di soli 11 giorni, «Florence e Andrew ci hanno chiesto di restare in silenzio al buio per 20 minuti per elaborare quanto vissuto». 

Seppur non propriamente catalogabile come rom-com, We Live in Time rispecchia le caratteristiche del genere, anche se Crowley ammette di non aver pensato alla commedia romantica. «Mi piacciono i film che hanno l’amore come effetto collaterale delle vicende in corso. Spesso il problema delle rom-com è che si scopiazzano le cose peggiori, ma il pubblico è intelligente, lo capisce quando non funzionano. L’amore autentico viene fuori quando i personaggi vanno in direzioni contrarie, come Almut e Tobias. Ho cercato di non prestare attenzione alle regole, ma solo di offrire un racconto fresco ed energico».

A fare da cornice alla vita dei due protagonisti c’è una Londra più inedita del solito: «volevo una Londra autentica e reale, la stessa che ho conosciuto io 25 anni fa quando sono venuto dall’Irlanda. Volevo catturarne una che corrisponde alla classe sociale e all’età dei personaggi, che sono esenti da vanità, per questo non ci sono contesti glamour, ma zone anonime, di passaggio. Ho rappresentato zone nelle quali si sono trasferiti molti giovani professionisti. Non la Notting Hill, di oggi, per intenderci, che è diventata accessibile solo se sei milionario!».

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