«La cosa importante, che ci siamo scordati, è che l’uomo è parte della natura, non il suo padrone», afferma Gabriele Fabbro, il cui secondo lungometraggio Trifole – Le radici dimenticate (dal 17 ottobre nelle sale per Officine Ubu) critica in modo neanche troppo velato certe derive di uno sviluppo rapace che rischia, tra le altre cose, di stravolgere equilibri locali cancellando patrimoni culturali. Come quello rappresentato dai trifulau, i cercatori di tartufi nelle Langhe piemontesi (dove i pregiati funghi sono appunto chiamati “trifole”).
Si ambienta qui, non lontano dalla cittadina di Alba, la storia del film, che è anche quella della giovane Dalia (Ydalie Turk, anche co-sceneggiatrice), mandata dalla madre Marta (Margherita Buy) ad assistere il nonno Igor (Umberto Orsini), anziano trifulau affetto da un principio di demenza e prossimo ad essere sfrattato per favorire l’espansione di un’azienda vinicola.
A rischiare di estinguersi è dunque l’intero mondo di Igor e dei cercatori di tartufi che, spiega Fabbro, «ad Alba ora sta davvero scomparendo», complice anche la catastrofe ecologica cui andiamo incontro: «Non a caso l’asta del tartufo è stata spostata di un mese perché non ce ne sono più. La situazione è critica, quando siamo andati lì a girare eravamo in maglietta a novembre, la terra è quasi diventata sabbia, non è umida».

A muovere il regista è stata proprio la curiosità per gli aneddoti e i segreti legati all’attività dei trifulau: «Il tartufo, questo “diamante” della natura porta a vere e proprie cacce al tesoro nei boschi, una dinamica che si presta bene a un racconto di finzione. Io poi, anche se ho già fatto un documentario, mi sento più portato per la fiction. Sono quindi andato nelle Langhe e ho cominciato a chiedere e a parlare con chiunque. L’approccio per scrivere la sceneggiatura è stato perciò effettivamente “da documentario”, ho raccolto tutte le storie dei trifulau e le ho “cucite”. È come se il territorio volesse raccontarsi, io ho fatto solo da tramite».
E, prestando attenzione a questo racconto, possiamo trarne spunti di riflessione su una certa idea di modernità: «Ho vissuto sette anni a Los Angeles, dove c’è solo “quella” modernità. La natura richiede tempo, e richiede che tutti, nel suo ecosistema, rispettino dei tempi. Saremmo chiamati perciò all’attesa, all’ascolto, al rispetto degli altri, creando comunità dove ciascuno ha un ruolo. Invece la modernità ci ha portato ad avere fretta, abituandoci ad ottenere tutto subito, tutti vogliono un successo immediato. Per me non funziona così».
Ma, oltre a proporci l’elegia di un paesaggio e di un modo di vivere, il film di Fabbro gioca con i generi e gli immaginari, dall’avventura alla fiaba: «In generale, ora come regista m’interessa cercare storie molto “reali” ma con una chiave per certi versi fantastica, dove lo spettatore si perda fra realtà e dimensione quasi favolistica. Mi piace molto quest’ambiguità».
Lo affianca, sia come protagonista che alla scrittura, Ydalie Turk, con cui il regista aveva già collaborato, tra le altre cose, per il suo precedente lungometraggio The Grand Bolero (2021): «Siamo molto diversi, io sono molto concentrato sulla parte visiva, lei invece venendo dal teatro lo è più sui dialoghi, quindi c’è un bel bilanciamento. Ci accomuna il tipo di storie che vogliamo raccontare».
Trifole, però, è anche l’occasione per rivedere in un ruolo di primo piano sul grande schermo il magnifico novantenne Umberto Orsini, che ha attraversato e segnato la storia del palcoscenico, ma anche della tv e del cinema (dall’Ivan della riduzione Rai de I Fratelli Karamazov al Nastro d’argento per La caduta degli dei di Luchino Visconti).
Fabbro lo ha scelto per dare corpo al personaggio di Igor, ispirato al suo legame col nonno recentemente scomparso: «Aveva il Parkinson, non Alzheimer o demenza senile, in vita è stato molto attivo, appassionato, il tipico uomo che in ogni condominio chiamano se c’è qualcosa da aggiustare. Per me era un grande punto di riferimento, la malattia gli impediva di parlare ma non si è mai buttato giù. Da lì ho cercato un attore che me lo ricordasse. Sono andato a trovare Orsini a Venezia, dove aveva uno spettacolo, gli ho detto che ci avrei tenuto ad affidargli la parte».

E Orsini, prosegue il regista, ha accettato, impegnandosi nel progetto al massimo della sua professionalità: «Sul set ci siamo trovati, ci confrontavamo con grande rispetto, senza litigi, ogni volta in camerino parlavamo del personaggio, lui sempre concentrato a dare il meglio ogni giorno. Ha una curiosità e una voglia di sperimentare incredibile. Ogni volta avvertivi la sua padronanza della scena. Il suo modo di parlare è talmente dinamico che ti ipnotizza. Nel film c’è un monologo di tre minuti che non era in sceneggiatura, l’abbiamo aggiunto perché sapevamo che quello era il suo forte, e anche lui lo sapeva».