The Bikeriders, Jeff Nichols e Austin Butler a Roma: «Un film su chi è ai margini della società»

L'attore e il regista presentano The Bikeriders in anteprima al Cinema Troisi

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the bikeriders

«Ho voluto fare questo film per mostrare quelle persone che spesso non si vedono, che la società non nota e con le quali si pensa non valga la pena avere dialoghi». Così Jeff Nichols presenta il suo The Bikeriders al pubblico del Cinema Troisi di Roma una settimana prima dell’uscita in sala prevista per il 19 giugno con Universal. Ad affiancare Nichols nella Capitale anche uno dei co-protagonisti, Austin Butler, che in The Bikeriders (copertina di Ciak giugno!) divide lo schermo insieme a Jodie Comer e Tom Hardy.

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Il film trae spunto dall’omonimo libro del fotografo Danny Lyon che esplora in prima persona le storie e i personaggi del Chicago Outlaws Motorcycle Club, un gruppo di motociclisti ribelli di cui lo stesso Lyon fu membro per anni. Un’opera ibrida tra testo e foto, unita da un unico fil rouge: raccontare persone ai margini della società. Per farlo, Nichols si è ispirato sia alle interviste scritte, sia alle fotografie: «Aver potuto unire le due cose è stata la commistione perfetta per ricreare quel mondo» spiega il regista. «Forse il testo mi ha ispirato di più, anche se in realtà non puoi separare i due elementi. Le foto sono molto romantiche, ti fanno innamorare di quei motociclisti, mentre quando leggi le loro parole ti accorgi che quello che dicono è piuttosto brutale, crudele, a volte buffo, ma estremamente reale». Alcuni attori (Jodie Comer soprattutto) hanno potuto attingere anche a delle tracce audio, ma non Austin Butler, che per il suo Benny, motociclista dai tratti misteriosi, ha lavorato più di immaginazione: «Di lui non ci sono clip audio né interviste nel libro. Neanche il suo volto è nelle foto, si intravede solo di sguincio dietro ad un tavolo da biliardo. È una figura misteriosa, quasi mistica. Ho fatto un lavoro da detective per capire chi fosse. Poi mi sono buttato sulla motocicletta più veloce che potevo e ho fumato un sacco di sigarette!».

Le foto scattate da Lyon nel suo libro sono in bianco e nero, mentre il film è stato girato con delle ottiche G Series Panavision. L’idea di togliere il colore non è mai stata un’opzione per Nichols: «Danny mi ha chiesto se volevo girarlo in bianco e nero, lo avrebbe trovato romantico. Ma proprio per quello non volevo farlo, sarebbe stato un altro filtro tra il pubblico e il film. C’è un’altra edizione del libro, uscita nel 2003, che è a colori. Lì si vedono le unghie sporche di grasso, tutti dettagli a cui tenevo molto. Volevo illustrare quel mondo esattamente così. Avere delle ottiche G Panavision ha fatto la differenza in tutti i reparti». Il libro, come il film, si impegna nel racconto di una sottocultura, quella dei bikers, rendendola universale. Ma come si fa a rendere una storia di motociclisti universale? «Tutto quello che succedeva nel 1965 succede anche oggi e succederà anche domani” risponde Nichols. «Di fatto, il film non parla di moto. Vedete persone che non si sentono di appartenere alla società, che sono ai margini e devono uscirne. L’arte, i film, la moda, tutte le cose belle di questo mondo succedono “fuori” e la società vuole prendersele. Questa voglia organica è un po’ un serpente che si morde la coda, è successo a me con il punk rock negli anni ’90, è successo con i bikers negli anni ’60 e probabilmente sta succedendo anche adesso a voi».

 

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Austin Butler ci regala un’altra interpretazione di livello dopo quella del temibile Feyd-Rautha Harkonnen di Dune 2 e quella intensa di Elvis nel biopic di Luhrmann che gli è valsa un Golden Globe e un BAFTA come miglior attore protagonista. Rispetto a quest’ultima, Butler racconta di aver lavorato con più creatività, avendo meno materiale al quale ispirarsi: «Sono state sfide diverse. Con Elvis avevo tra le mani del materiale fantastico, ma sentivo una maggiore responsabilità nel portarlo in vita. Tutti hanno idea di chi è Elvis e per questo devi sottostare a una specificità di dettagli. In The Bikeriders c’è stata più conversazione e più libertà creativa. Entrambi i personaggi possono essere visti come dei ‘miti’, ma la responsabilità di un attore è proprio quella di far vedere l’umanità e la loro anima».