Perché amare Titane

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Vincent Lindon

Anni fa – era il 1986 – Nanni Moretti se la prese con l’ambigua amoralità di un film gore che rompeva la barriera tra horror e voyeurismo, chiamando in causa (era il suo difetto maggiore) il nostro istinto segretamente perverso e prefigurando una società dell’immagine (era il suo pregio maggiore) senza più umanità. Henri – pioggia di sangue di John McNaughton mi è tornato in mente leggendo l’ironica (e autoironica) protesta dello stesso Moretti a proposito di Titane con la sua palma d’oro. Il contesto oggi è differente, Julia Ducournau (classe 1983, bellezza scolpita come la sua protagonista, Agathe Rousselle) ha nei cromosomi il Cronenberg di Crash, viene da buone letture e buone frequentazioni cinefile tanto da arruolare il raffinato Bertrand Bonello nel cast e da sedurre Vincent Lindon, protagonista di una vera sfida attoriale. Ma alla fine l’interrogativo resta lo stesso: è legittimo e sensato un film così estremo, così provocatorio, così capace di smuovere emozioni primigenie e animali che l’homo sapiens dovrebbe tenere a bada? E’ come se Stevenson, scrivendo la parabola di Jeckyll e Hyde, avesse spudoratamente preso le parti del solo Hyde e Ducournau avesse riscritto Tetsuo guardando dentro la psiche dell’uomo macchina che ci aspetta. Ci fa paura, desiderio, repulsione, fascinazione e questo è probabilmente il maggior pregio; vellica una parte di noi che non vorremmo assecondare e nell’abbandono alla maestria della rappresentazione e degli effetti speciali addormentiamo la nostra coscienza. Il che è discutibile. Ma quando un film riesce da solo a provocare così nel profondo, a essere sintesi di tante cose già dette rovesciando lo schema previsto e andando “oltre” il già visto, fa esattamente il mestiere del cinema: mostrare l’immostrabile, inventare il possibile, scavare nella psiche senza paura. E allora anche un premio effimero come la Palma mi appare giusto. Per capire se è stato davvero un colpo di genio o di follia da parte dei giurati di Cannes bisognerà attendere il terzo film della regista francese.

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