Il 15mo Ca’ Foscari Short Film Festival debutta con Pablo Berger

Per la giornata inaugurale della manifestazione veneziana, il pluripremiato autore di Blancanieves e Il mio amico robot ha ripercorso la sua carriera, dai primi corti alla corsa agli Oscar: "Sono un cinefilo, prima che un regista".

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Per la giornata iniziale del 19 marzo, il 15° Ca’ Foscari Short cala il suo primo asso, Pablo Berger, che all’Auditorium Santa Margherita ha inaugurato l’edizione con una masterclass, subito dopo il corto Ginger ~ Fred, realizzato dagli studenti dell’ateneo nell’ambito del progetto Film&Parità. E se i (problematici e plurali) nuclei affettivi sono il tema privilegiato che emerge dal Concorso Internazionale del festival di quest’anno, anche per il regista e sceneggiatore spagnolo il cinema è una “questione di famiglia”.

Nel senso che, lo ha ripetuto più di una volta rispondendo alle domande di John Bleasdale (docente di Ca’ Foscari e membro del comitato scientifico dello Short), Berger considera i suoi film come dei figli, «ognuno è diverso, ma hanno lo stesso DNA»: fatto di commistione fra commedia e dramma («Mi piace molto quando si combinano: la vita è una tragicommedia»), musica (due su quattro dei suoi lungometraggi sono muti, o per essere precisi senza dialoghi, ma le note sono tanto più protagoniste) e amore, nelle sue più varie accezioni. Incluso quello per la settima arte: «Sono un cinefilo, prima di essere un regista. Tutti i miei film hanno cinefilia, dall’inizio alla fine».

E l’ospite ha ripercorso una ad una le genesi di quei suoi “figli” diversissimi e simili nel corso dell’evento allo Short, che segna la sua seconda volta a Venezia: la prima era stata una veloce tappa sulla via delle Giornate del Cinema Muto di Pordenone, dove il suo Blancanieves (2012), trionfo ai Goya (10 riconoscimenti, tra cui Miglior film) e candidatura per l’Oscar al lungometraggio internazionale, era stato il titolo d’apertura.

Prima di quell’exploit, comunque, tutto aveva avuto inizio, come spesso capita (e la manifestazione di Ca’ Foscari ce lo ricorda), dai corti. Il primo, intitolato Mamá e datato 1987, è stato «un momento chiave per la mia carriera», racconta Berger, che ascrive quel lavoro al suo «periodo punk», quando «non sapevo nulla di cinema, non ero mai andato a scuole di cinema, semplicemente amavo i film».

E in effetti, come sottolinea Bleasdale, è molto punk (e «molto dark», rammenta il regista) Mamá, ambientato in una notte di Natale del 2073 dove la Spagna viene invasa dagli alieni (tra le fonti di ispirazione, l’autore cita Brazil di Terry Gilliam e Re-Animator, oltre alla cultura pop del suo Paese). È così che il cineasta ha cominciato a farsi le ossa, imparando «quanto è difficile fare un film», ma anche sperimentando con gusto.

Da lì, non per nulla, il regista di Bilbao (città «molto vicina a San Sebastián» e al suo festival, specifica lui, quasi a rimarcare un destino cinematografico inscritto dalla nascita) non ha smesso di mettersi in discussione, variando genere, stile e spesso location: prima del debutto nel lungometraggio, infatti, c’è la fondamentale esperienza a New York, cui approda nel 1990 per studiare alla NY University (dove transitano nomi come Abel Ferrara): Una scuola di vita prima ancora che di tecnica audiovisiva: «Prima, i miei film erano sui film», poi la Grande Mela, anche nelle sue durezze, fa entrare le emozioni della realtà.

Il regista Pablo Berger.

Nella metropoli statunitense Berger incontra la sua futura moglie Yuko Harami e realizza il lungometraggio d’esordio, Torremolinos 73 (2003): e siccome «quando fai il tuo primo film metti tutte le tue ossessioni» (anche perché «potrebbe sempre essere l’ultimo»), il regista non si risparmia in spunti ed ingredienti, infondendo in questo spaccato della Spagna franchista negli anni ’70 tanto, tantissimo cinema, da Lucio Fulci al Laureato («Uno dei miei film preferiti di tutti i tempi») passando per Ingmar Bergman.

Il maestro svedese è non casualmente il nume del protagonista Alfredo (Javier Cámara), che però tra le difficoltà economiche del momento si ritroverà a girare improbabili video porno sul proprio ménage di coppia assieme alla moglie Carmen (Candela Peña). Nello soggetto echeggiano suggestioni autobiografiche («La prima cosa che mi hanno chiesto quando sono uscito dall’Università è di fare un porno»), offrendo a un non ancora celeberrimo Mads Mikkelsen l’occasione di comparire (anche svestito).

In effetti la Danimarca c’entra più di qualcosa in Torremolinos, che ha fra i suoi produttori annovera un certo Thomas Vinterberg. Il quale, peraltro, di fronte all’idea un po’ folle per Blancanieves (2013), seconda fatica nel cinema lungo di Berger, aveva ammonito quest’ultimo: «Non farlo, sarà un disastro». E invece il filmmaker iberico, rischiando tutto con un lungometraggio muto e in bianco e nero, che traspone la fiaba dei Fratelli Grimm fra i toreri della Spagna anni ’20, è un successo che ripaga gli otto anni richiesti per fargli vedere la luce.

Ma anche stavolta il regista non resta nella comfort zone creativa, tornando alle parole e ai colori per il lavoro seguente, Abracadabra (2017), che è la sua «lettera d’amore a Madrid», nonché la conclusione della “trilogia spagnola”. E il realismo magico di Blancanieves è ancora di casa nella vicenda del “maschio alfa”, marito padrone e super-tifoso del Real Madrid Carlos (Antonio de la Torre), posseduto dallo spirito di un altro uomo dopo un numero di ipnotismo. «Adoro promuovere i miei film in Italia», confessa Berger ricordando l’esperienza di Abracadabra che aprì la 12ma Festa del Cinema di Roma, «Si mangia tanto e ci divertiamo così tanto! Mi sento a casa».

Segue il cambiamento forse più radicale nel percorso di Berger (ancorché di nuovo alle prese col muto), quello del lungometraggio Il mio amico robot (Robot Dreams, 2023), stavolta in animazione (tecnica che definisce «il sogno di un regista, perché sei molto vicino a cosa realizzi», senza il ritmo sincopato delle riprese in live-action).

Alla base c’è il graphic novel di Sara Varon: «Me ne sono innamorato, il finale mi ha commosso fino alle lacrime», dice lui. Che racconta, ancora con molta musica a bilanciare l’assenza di parole, la storia d’amore, di perdita e di sua elaborazione tra un cane e un automa. E il regista ritrova per l’occasione New York, prendendosi tutto il tempo (5 anni di produzione) per omaggiarla curando i più piccoli particolari (anche negli sfondi mai statici).

Il mio amico robot è un’altra scommessa vinta, che entra nella cinquina della corsa agli Academy Awards per il miglior lungometraggio animato, permettendo a Berger di conoscere personalmente uno dei suoi miti, Steven Spielberg. Il regista di Schindler’s List, infatti, era proprio dietro il collega spagnolo durante il photocall per un evento legato alle nomination agli Oscar. «E lì», ricorda Berger, «mi sono detto: “Okay, è il mio momento”». Per parlargli e dirgli «la verità: e cioè, che la prima volta in cui ho capito che dietro un film c’è un regista, è stato quando vidi Lo squalo da adolescente».

E dopo quest’ultima «montagna russa», cos’ha in cantiere Berger? È ancora presto per dirlo con certezza, ma non nasconde di aver «ripreso a scrivere. Per me scrivere è disciplina, lo faccio quotidianamente ogni mattina. Ho un progetto che mi sembra buono, ma dovremo capire se sarà quello giusto». In ogni caso, come per gli altri “figli” artistici del cineasta, «ci sarà emozione, ci saranno umorismo, musica, storie d’amore. E sorprese, anche per me stesso».