Doveva essere la Venezia della ripartenza, del ritorno in sala, della riscoperta di un piacere che appartiene da sempre al cinema, il piacere di stare insieme. Per molti versi invece, malgrado il grande afflusso di pubblico soprattutto giovanile, è stata la Mostra dell’isolamento e dell’incertezza. Incerta è sembrata la selezione ufficiale, divisa tra quelli che una volta si chiamavano film “da festival” e lavori costruiti invece per il più largo consenso, obiettivo di per sé nobilissimo che però ben pochi oggi sono in grado di raggiungere (magari si vedessero più spesso grandi film di grande successo, una combinazione sempre più rara).
Isolati erano gli spettatori, costretti a prenotare le proiezioni con giorni d’anticipo, dunque non sempre in grado di vedere il film nella compagnia desiderata. Oltre che rigidamente tenuti a seguire il programma, una volta fatte le prenotazioni, mentre un festival dovrebbe offrire anche leggerezza e flessibilità (un problema che non riguarda certo solo Venezia).
La divisione più netta resta però quella sancita dalla Giuria, che pur spaccandosi e discutendo (nessun premio è stato dato all’unanimità) ha fornito un verdetto limpido e motivato. Laureando i film più nuovi, originali, rischiosi, per lasciare invece a mani vuote i titoli più adatti al tappeto rosso che al Concorso. Dal documentario leone d’oro di Laura Poitras, All the Beauty and the Bloodshed, alla rivelazione Saint-Omer di Alice Diop, leone d’argento, passando per la Coppa Volpi a Cate Blanchett, il doppio premio a Bones and All di Guadagnino (regia e attrice), e la seconda doppietta incassata, forzando il regolamento, da Gli spiriti dell’isola di Martin McDonagh (sceneggiatura e attore), la Giuria presieduta da Julianne Moore non ha sbagliato un colpo.
Peccato solo aver escluso dai premi, con l’abituale anglocentrismo, Argentina 1985 di Santiago Mitre e Love Life del giapponese Koji Fukada. Inutile sottolineare che l’unico film premiato diretto da un italiano, quello di Guadagnino, è a tutti gli effetti un film americano. Stavolta però nessuno potrà accusare la Mostra di voler diventare a tutti i costi l’anticamera degli Oscar, e di questo bisogna ringraziare i giurati.
Anche se subito dopo è inevitabile chiedersi perché ci fossero ben quattro titoli Netflix in Concorso, uno dei quali, White Noise di Noah Baumbach, addirittura in apertura. Titoli in parte destinati a non uscire nemmeno in sala (come Blonde o Argentina 1985, che andrà direttamente su Prime Video), o a farvi solo un rapido passaggio. Mentre nelle altre sezioni, in testa Orizzonti, non mancavano lavori che non avrebbero sfigurato nella competizione ufficiale. E al Festival di Toronto c’erano titoli di grande prestigio come The Fabelmans di Steven Spielberg o Empire of Light di Sam Mendes.
Morale: giunta a 90 anni d’età, la Mostra deve ridefinire la sua “mission”. A cosa serve un festival? Che tipo di film deve far scoprire, secondo quali modalità? Intendiamoci: in Italia spesso carichiamo tutto sulle spalle di Venezia, come se da sola potesse risolvere problemi che durano 12 mesi l’anno. Non è di questo che parliamo. Ma non basta nemmeno moltiplicare i titoli, dedicare una sezione specifica ai lavori in VR, o aiutare i giovani con i film di Biennale College, laboratorio rivolto ai nuovi cineasti “per lo sviluppo e la realizzazione di lungometraggi a microbudget”, se poi nelle sezioni principali si dà un colpo al cerchio del cinema che inventa e uno alla botte di quello che incassa (almeno si spera). I grandi festival vivono di scoperte, di sorprese, di scommesse. Diminuire progressivamente gli spazi concessi agli indipendenti non abbassa i rischi. Li alza.