50 anni compiuti da poco, una carriera costellata da ruoli memorabili, diretta da grandi registi e maestri: Giovanna Mezzogiorno, ospite della 25esima edizione del Festival del Cinema Europeo di Lecce, che le ha dedicato una retrospettiva dei film più significativi da lei interpretati e che l’ha omaggiata con L’ulivo d’oro, sin dall’inizio della sua carriera, cominciata nel 1997 con Il viaggio della sposa di Sergio Rubini, ha dimostrato grande sensibilità e talento, consegnandoci interpretazioni emozionanti e travolgenti in film come La finestra di fronte di Ferzan Ozpetek, La bestia nel cuore di Cristina Comencini, Vincere di Marco Bellocchio, L’ultimo bacio di Gabriele Muccino, Lezioni di volo di Francesca Archibugi, La tenerezza di Gianni Amelio.
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Figlia di Vittorio Mezzogiorno e Cecilia Sacchi, sui set sin da bambina, all’inizio non pensava di intraprendere la carriera da attrice: «Io ho pensato di fare danza classica», ha spiegato in conferenza stampa, «pensavo di fare danza per insegnare alle piccoline, poi le cose sono andate diversamente, non sono mai stata invogliata ad avvicinarmi alla recitazione dai miei genitori che mi hanno sempre tenuta lontana da qualsiasi proposta, pubblicità che avrei potuto fare quando ero piccolina. Io li frequentavo i set, la prima volta a 5 anni, ma non tantissimo, perché poi sono noiosissimi».
L’esperienza da regista

L’attrice ha esordito lo scorso anno alla regia di un cortometraggio, Unfitting, in cui racconta il modo in cui è stata emarginata dal mondo dello spettacolo dopo essere ingrassata 20 chili a seguito della nascita dei suoi due gemelli: «È un mestiere più difficile di quanto si creda», ha dichiarato, «ma pensando alla mia carriera il bilancio è positivo. Mi sono accadute cose che non pensavo fossero possibili, pensavo non potesse succedere a me, non per presunzione, ma semplicemente perché ho seminato bene, ma è successo, è un ambiente difficile, cattivo, ma non fa niente, può avere peso per un periodo, ma poi si va avanti e si continua a fare quello che si sa fare. Però l’importante è sapere che tutto quello che in questo ambiente viene dato come un valore etico, fondamentale, senza il quale non si può andare avanti, è solo polvere».
E se le si chiede se adesso è pronta per dirigere un lungometraggio risponde: “Mi è piaciuto molto dirigere un corto, avere a che fare sul set e con il set in maniera più diretta e più interattiva rispetto a come fa un attore. Mi ha entusiasmata in particolare la fotografia, come fare una scena, come girarla, il montaggio, questo lo avevo già sperimentato con il documentario dedicato a mio padre, Negli occhi. Ma passare da un cortometraggio di 3,4 giorni a un lungometraggio di 6 settimane io non me la sento di dire se ne sarei capace. La storia o la proposta adatta ora non ci sono, se ci saranno valuterò. Sia Unfitting che il mio libro, Ti racconto il mio cinema sono stati dei progetti proposti, ho detto di sì, ma poi mi sono chiesta perché ho accettato, dirigere è difficilissimo, scrivere un libro è una cosa allucinante, quindi veramente è stata dura, però mi ha spinto la voglia di far capire ai ragazzi di oggi quello che c’è dietro al cinema, un mondo difficile. In Svizzera questo libro è stato messo come materia scolastica, mi fa piacere perché insegna, probabilmente senza soluzione, che il cinema è ancora artigianale, nonostante gli effetti speciali e tutto ciò che di tecnologico c’è, è comunque un mondo che è fatto di mani, di braccia, di corpi che si muovono in modo estremamente coordinato, senza che nessun reparto incida in quello che è il lavoro degli altri reparti. È un’orchestra abbastanza affascinante, non so quanto i ragazzi abbiano voglia di perdersi in questa narrazione».
Il rapporto con i registi
Giovanna Mezzogiorno non cerca più dei ruoli specifici, ma quello che la attira in un progetto è la storia, i rapporti che si possono creare: «Per me è veramente importante il rapporto con il regista ed è importante la sceneggiatura, sento di poter dare ancora moltissimo, me ne accorgo quando sono sul set, non so mai come sarà la scena prima che io la faccia, però sicuramente lo so sempre dopo, cosa vuol dire? Tutto e niente, però io non vado sul set sapendo che una cosa è per me, se la devo fare, se la so fare sicuramente dopo lo saprò».
E poi ripensando ai ruoli e ai film passati confessa: «Mi riguardo nei film non proprio pazza di gioia, ma lo faccio perché voglio capire determinate cose. Vincere di Bellocchio, per esempio, è stato un film difficile, faticoso anche a livello fisico, ero in ogni inquadratura del film. E devo dire che il rapporto con Marco Bellocchio me lo sono dovuta sudare, non è così immediato Marco. È stato creativo al massimo, lui è un visionario vero, penso non solo a Vincere, ma anche a L’ora di religione, sono film che devi rivedere in loop per capire ogni volta delle cose diverse, per me questi incontri, penso anche a Cristina Comencini per esempio, mi hanno dato tanto, al di fuori del set io non mi porto nessun personaggio a casa, porto me stessa ed è già un miracolo, ma ho portato con me il rapporto umano con questi creatori, Bellocchio è un creatore, mi ha dato delle cose alle quali senza di lui non avrei mai pensato».