Il secondo gruppo di corti al Concorso Internazionale del 15° Ca’ Foscari Short Film Festival (proiettati il 20 marzo all’Auditorium Santa Margherita, in replica lo stesso giorno all’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti) prosegue l’itinerario nelle vie dei, sovente problematici, legami familiari. E stavolta, fra solitudini e rapporti disfunzionali, la riflessione spesso tocca anche meccanismi dello sguardo, in un excursus attraverso tanti modi di vedere, e non vedere, la realtà dentro e fuori di sé.
Su questo si gioca esplicitamente il primo lavoro italiano in concorso quest’anno, Nero di Claudio Agostini (dall’Istituto Europeo di Design di Roma), dove la corsa-fuga in macchina del giovane Francesco (segnato da una figura paterna che non ci viene mai mostrata ma di cui pesa la presenza-assenza) si arresta in un incidente stradale che coinvolge il cane Nerone.
L’incontro del ragazzo col padrone non vedente dell’animale, in una campagna isolata che riflette la distanza di entrambi gli uomini dai rispettivi affetti, diviene il dialogo tra un genitore alternativo e un figlio possibile. Dove il primo ha più di qualcosa da insegnare su come diventare finalmente adulto, imparando a guardare nella propria coscienza e nelle proprie emozioni, accettando in particolare le lacrime (quello degli occhi continua ad essere il campo semantico dominante), sintomo di una fragilità ancora tabù per una stereotipata identità maschile.
Altro sofferto scambio di sguardi è quello, nel Kurdistan iraniano, e rurale, di Son (diretto da Saman Hosseinpuor, Sepehr Art University of Isfahan) tra una madre in cerca del figlio scomparso e quest’ultimo, che riemerge nella sua nuova identità, sfidando limiti sociali, politici, religiosi imposti, ma soprattutto mettendo alla prova la capacità dell’altra di comprendere e di accogliere. Sintesi di questo percorso fatto di lunghi e difficili silenzi, è una finestra osservata ora dall’esterno ora dall’interno, inquadratura nell’inquadratura, canale tra due mondi lontanissimi eppure, forse, ancora in grado di comunicare.

L’atto del vedere è ancora l’elemento chiave nel buio (soprattutto dell’anima) di Sparks in the Darkness, il più lungo titolo di questa sestina e il secondo in gara al 15° Short dalla Russia (per la regia di Vladislav Emelin, Saint Petersburg State Institute of Film and Television). Che, significativamente, ci traghetta ancora una volta nei porti del cinema di genere, stavolta un buddy cop non privo di sterzate grottesche ma stilisticamente solidissimo, da una panoramica iniziale virata in rosso e poi invasa dalle fiamme di una strage al gioco di riflessi tra i due agenti (persino più cupi, persi e colpevoli dei poliziotti di True Detective), la cui ricerca di verità, su cui piove come in Blade Runner e Black Rain di Ridley Scott, è votata in partenza allo scacco.
Ma ci parlano (anche) di isole questi corti, in particolare nei due film con protagoniste femminili adolescenti desiderose di proiettarsi oltre le gabbie di un presente chiuso quando non oppressivo: è il caso, quest’ultimo, di Miriam nel messicano Náufragos – Castaways (diretto da Andrea Saavedra de la Teja, Centro de Capacitación Cinematográfica), teen-drama confinato tra le mura domestiche, dove la ragazza è risucchiata dalla cura della madre depressa e del fratellino neonato Noé. E si rischia di sprofondare, tra l’acqua di una vasca-oblio che allaga la casa e un pianto che non fa dormire, in una tempesta di pieni e vuoti emotivi restituita con poche, essenziali pennellate, capaci di commuovere senza enfasi.
Opposta e complementare la condizione della sedicenne di Island of Young-a (firmato dalla sudcoreana Seung-hyun Choi, Sungkyunkwan University), che trascorre le sue giornate nell’isola dove vive con la nonna e il cane, tra spazi aperti abbracciati dalla luce del sole e dai tanti suoni degli animali. L’orizzonte però è ugualmente insufficiente per Young-a, il cui bisogno di riconnettersi col resto del (suo) mondo, tra la madre che ora la (ri)vorrebbe con sé e l’amica in procinto di partire, è sempre meno ignorabile. Ma il potenziale conflitto tra affetti e generazioni è risolto con leggerezza poetica, attraverso il dualismo tra una lenta bicicletta e il rombo di un quad, mentre i tasti di un pianoforte scandiscono i momenti di un ciclo dell’esistenza che va concludendosi.

Un altro tipo di leggerezza, fatta di animazione senza dialoghi e gag slapstick, è quella del bosniaco Snima – Rec (Academy of Arts, University of Banja Luka) dove Fedor Marić riesce a farci meditare senza intellettualismi sulla sempre complicata relazione tra natura e cultura, tramite lo spassoso e serrato scontro musicale tra una band robotica e un passerotto fucsia. E, dopo una rivolta di volatili che sembra citare e rivisitare comicamente gli Uccelli hitchcockiani, ci viene suggerito, anche qui, che la via preferibile può passare dal venirsi incontro, e cooperare, nelle rispettive diversità.