Short 2025 – Il Concorso Internazionale prosegue sulle vie della memoria

Nel quarto gruppo di lavori in gara alla 15ma edizione del Festival veneziano abbiamo visto L'attaque (secondo e ultimo titolo italiano in competizione), The Worst Kind of Pain, Match, The Letter, Love from the Shadow e Home.

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La memoria, quella individuale che può venire meno o a cui ci si tiene aggrappati, quella dei grandi eventi collettivi (ma dalla prospettiva dei piccoli attori che li muovono e subiscono), quella dei traumi fisici ed emotivi, è il nodo che, insieme al tema portante sulle famiglie, accomuna vari lavori nel quarto gruppo di corti in Concorso al 15° Ca’ Foscari Short Film Festival (presentati il 21 marzo all’Auditorium Santa Margherita). E il cinema giovane riunito a Venezia rinnova così un’antica funzione della settima arte, tra indagine della Storia ed elaborazione drammatizzata dei viali (e labirinti) psichici.

È un territorio inedito e straniante, ad esempio, la mente dell’amata Ruža per il marito Vladan, che nel serbo Home (Dom, di Danilo Bjelica, Faculty of Media and Communications, Belgrado) deve adattarsi alla nuova condizione della donna, i cui ricordi vengono meno e si confondono progressivamente a causa di una malattia. Il crepuscolo malinconico della vita assieme è perciò evocato secondo i tempi, dilatati e pacati ma emotivamente densi, dell’età di cui si parla, muovendosi fra i sentieri di una cittadina mutata e invecchiata con i suoi abitanti e gli arredi di un interno borghese (fra mobili di legno, poltrone, tappeti e un pianoforte) che appare troppo più grande del protagonista rimasto solo.

Un’immagine di Home.

Le reminiscenze di un emblematico episodio d’infanzia scandiscono poi il dramma tra sorelle L’attaque, secondo titolo italiano in gara (e già selezionato ai RIFF Awards), per la regia di Aureliana Bontempo, dal Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. Il triangolo fra la maggiore Aurora, la minore e Emma e il fidanzato della prima ci parla delle regole ambigue dell’attrazione (perché, dice Emma, «a volte in amore le cose belle e le cose brutte si confondono»), di aspettative romantiche e amare disillusioni, di consenso e manipolazione. E di un tentativo di essere capita, da parte della ragazza più piccola verso la più grande, che è sognato o forse finalmente realizzato nel fiabesco, surreale guizzo conclusivo.

Non si intravedono invece speranze di riconnessioni per l’outsider protagonista di Love From the Shadow (La sombra del querer, diretto da Ale Gálvez, Universidad Mayor di Santiago del Cile), dove la quotidianità in bianco e nero della senzatetto Marta è riempita da truffe telefoniche e preghiere riadattate alla vita in strada. Gli affetti familiari, stavolta, sono la chimera di un riscatto che si annuncia solo per essere smentito, nel ritratto di una solitudine senza indulgenze né compiacimenti.

Ci riporta invece alla Seconda Guerra Mondiale il kazako The Letter (Khat) di Ernat Sabitov (Kazakh National University of Arts). Che, tra i molti meriti, ha quello di mettere al centro (in epoca di forsennata militarizzazione europea) lo stillicidio di sofferenze di ogni conflitto armato, anche per chi vi assiste dai margini, nell’apprensione costante dei civili oppressi dall’economia di guerra e dall’apprensione per i propri cari al fronte. Ma, al tempo stesso, il film non rinuncia a omaggiare il tributo pagato dall’Armata Rossa sovietica alla disfatta del nazifascismo, fornendo un ulteriore antidoto alle pericolose, fuorvianti banalizzazioni e mistificazioni del presente. Senza alcuna retorica trionfalistica, e anzi deformando ironicamente quella dello stalinismo, in un bianco e nero (dalla grana sporca come la pellicola di un vecchio cinegiornale) dove spicca per contrasto il colore delle bandiere e del sangue versato.

Un’immagine di The Letter.

Un altro modo di fare i conti col passato, non dei campi di battaglie tra eserciti ma dello spazio, intimo per definizione eppure spesso indebitante invaso del ventre materno, è quello dell’animato The Worst Kind of Pain (A pior do que há): in Brasile, ci viene detto, una donna su quattro è vittima di violenza ostetrica, e il lavoro di Ana Clara Miranda Lucena (Universidade de Brasília) ne racconta uno tristemente emblematico, basandosi sul libro autobiografico della giornalista e scrittrice Caira Lima (che partecipa anche come voce narrante). Le forme essenziali disegnate da un filo rosso in costante movimento sono la chiave della regista per mettere in immagini, con delicatezza e rispetto per i corpi e le vite vere di cui si parla, una storia di abusi e colpevolizzazioni contro una donna, il suo benessere e la sua autodeterminazione, dall’ambiente domestico a quello medico.

E il lato oscuro di quest’ultimo si prende la scena anche nel duro Match (Suq Tafahum, di Maria Sayegh, Académie Libanaise des Beaux-Arts), che ci mostra un Libano diverso da quello sotto le bombe israeliane della cronaca recente, ma dove l’ordinaria routine metropolitana cela nondimeno l’orrore di un sistema disumano. Si parla, infatti, di traffico di organi, nella scioccante normalità della sua catena che coinvolge sanitari, tassisti, negozianti. Ma a cui fa da controcanto l’agonia di un uomo a cui è stato tolto il rene, in un film che ha la sua forza nel montaggio, capace di restituire e fissare il baratro di ingiustizia dietro questa, e altre, catene di sfruttamento e morte.