Pesaro 60 chiude con Luca Guadagnino: «La cinefilia è tutto». E parla dei nuovi progetti

Il regista di Bones and All ha ricevuto il Premio Pesaro Nuovo Cinema 60 della Mostra, dove è stata anche presentata la monografia a lui dedicata Spettri del desiderio e si è tenuta la proiezione del suo recente film Challengers

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Quella di Luca Guadagnino è la storia di un cinefilo che ha voluto non solo diventare regista, ma, citando le sue parole alla 60ma Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, «essere in grado di dominare la bomba che era il cinema hollywoodiano»: lui che si sentiva «furiosamente appassionato del cinema non hollywoodiano» (la Nouvelle Vague, in primis, definita non una corrente ma «un sistema di onde che attraversavano il mondo come forma epifanica»). E ce l’ha fatta, a “dominare la bomba”, senza perdere quella passione per la settima arte condivisa il 22 giugno col pubblico del festival diretto dall’ex compagno di studi Pedro Armocida.

All’ospite d’onore dell’ultima giornata, la Mostra ha tributato il Premio Pesaro Nuovo Cinema 60 (che lui dedica all’attrice Francesca Mizzoli, da poco venuta a mancare), presentando con l’occasione il volume Marsilio Spettri del desiderio (prima monografia critica su Guadagnino pubblicata in Italia) assieme ai curatori Cecilia Ermini e Simone Emiliani (oltre a molti degli studiosi inclusi nel libro) e chiudendo in un’affollata Piazza del Popolo con la proiezione di Challengers, il film del regista sul tennis e (quindi) sulle relazioni umane, col triangolo erotico-sportivo formato da Josh O’Connor, Mike Faist e Zendaya.

Ma, differentemente dai protagonisti dell’Evento speciale sul cinema italiano di quest’anno (Ficarra e Picone, da un lato, Franco Maresco, dall’altro), quella sul regista Leone d’argento per Bones and All non è una retrospettiva, bensì, citando Armocida, una «prospettiva»: proiettata com’è verso il futuro dell’autore in oggetto, che ha in cantiere (almeno) cinque nuovi progetti. «Spero di non essere noioso», scherza al riguardo Guadagnino, «come quando ti piace la panna, ne mangi tanta e ti senti male».

È in via di completamento (ancora un paio di settimane di lavoro sul mix del suono) Queer con Daniel Craig, tratto da Burroughs (e probabilmente a Venezia 81): «È il mio film più personale, lo dico in maniera un po’ impudica, ed è il mio omaggio a Powell e Pressburger», dichiara il regista, che avvisa inoltre di aspettarci scene di sesso «numerose e abbastanza scandalose», oltre a tre ruoli per altrettanti cineasti: David Lowery, Tom Schulman e «il grandissimo Lisandro Alonso».

L’8 luglio, poi, inizieranno le riprese di After the Hunt, con Julia Roberts e Andrew Garfield (ma anche Ayo Edebiri, Chloë Sevigny e Michael Stuhlbarg), anche questo «molto provocatorio». E ci sono Camere separate, da un «romanzo straordinario» di Pier Vittorio Tondelli («è un film che farò, non so quando, ma lo farò», dice) e due documentari (che il regista, ma anche la monografia su di lui, invita a non considerare una parte staccata, men che mai minore, della sua produzione): Intimité, dove si parte dagli attentati del Bataclan per interrogare vari pensatori «sul concetto di amore e sul concetto di disconnessione di questi giovani ragazzi radicalizzati francesi» e Joie de vivre, sul rapporto di Guadagnino con Bernardo Bertolucci.

Che riguarda anche Pesaro, e quell’edizione del 2011 dove l’Evento speciale sul cinema italiano era dedicato proprio al regista de L’ultimo imperatore. Considerato da Guadagnino «un gigante del cinema mondiale. Non mi lascia mai, penso sempre a lui e al suo cinema, è un pensiero che mi torna in maniera automatica, lo sogno, sogno i suoi film, i suoi movimenti di macchina. Forse nasce come un feticismo, il mio rapporto con Bertolucci, ma ora penso che, anche col tempo, la mancanza, esista qualcosa di trasparente e puro tra noi».

Il Guadagnino di ritorno a Pesaro non ha smesso perciò di amare il cinema: e chiama in causa, tra l’ironico e l’affettuoso, l’intervenuto del giorno prima, «il mio caro amico Franco Maresco», per lui «un essere umano complesso e un grandissimo cineasta», che «da quando lo conosco (avevo quindici anni) mi ripete che il cinema è morto».

Ma, obietta il regista di Chiamami col tuo nome, «per dichiarare morto il cinema forse bisogna capire che cosa significa cinema». Se intendiamo «proposte audiovisive che servono a mettere in atto una forma di intrattenimento e una visualizzazione di un tema, una storia, un copione, allora tenderei a dare molta ragione a Franco Maresco. Però non penso che il cinema, per quanto abbia preso il sopravvento questo modo di farlo, sia a secco di punti di vista che possano mettere in atto una prospettiva che, con le immagini, scardini il pensiero di chi guarda».

E Guadagnino (secondo cui «i film più belli che si fanno negli ultimi vent’anni» portano la firma di Wang Bing) porta o cerca di portare tale tensione anche nei suoi lavori: «Queste fratture, deviazioni, slittamenti dall’idea che una storia debba percorrere un percorso dato, si debba conchiudere in sé stessa, è la mia forma di resistenza al pensiero anglosassone dominante, ma da dove li prendo gli strumenti per questa resistenza? Dagli stessi anglosassoni»: perché, spiega, il cinema classico hollywoodiano ha sempre dato grandi lezioni nel «dire qualcosa e farne vedere un’altra».

Si veda l’approccio del diretto interessato a un genere come l’horror (frequentato attraverso Suspiria e Bones and All): che non gl’interessa tanto come prodotto nella sua codificazione convenzionale, ma come «riflessione devastante e profonda sul reale che descrive, analisi della scomposizione dei corpi». E prosegue: «Per me il cinema horror esiste nel momento in cui diventa una sorta di visione metafisica: allora gli opposti che si toccano sono Bergman e Romero. Uno che si pone in una posizione filosofica esplicita e uno che con grande umiltà sonda profondità inesplorabili».

Insomma, la morte del cinema può attendere, ma anche quella della cinefilia: «La cinefilia è tutto. E la critica, per quanto maltrattata, auto-torturatasi, equivocata in forme che non hanno niente a che vedere col pensiero critico, esiste, resiste e se ha una verve sincera deve resistere». Lui, per inciso, non si sente affatto “maltrattato” dalla critica di casa nostra, al contrario, dice, «l’Italia mi ha dato moltissimo». Né lui vuole mostrare snobismo esterofilo, anzi invita a non dare per scontato che a Hollywood siano meglio organizzati di qui: in realtà, sintetizza, «il caos regna ovunque», e ricorda che negli USA «quest’estate potrebbe esserci il terzo sciopero».

Non esclude nemmeno di girare un futuro film di nuovo con protagonisti italiani (magari proprio quello tratto da Tondelli) o addirittura uno che racconti un pezzo di storia politica del nostro Paese. E in particolare quel momento che rammenta come «una torsione molto forte, molto violenta in Italia», a cavallo degli anni ’80, «quando sembrava che tutti potessimo essere ebbri di godimento e di edonismo, lì succede qualcosa di raggelante». Lui, non per nulla, ha trascorso quel decennio a Palermo «quando saltavano in aria persone ogni giorno».

Legato all’Italia anche un curioso aneddoto autobiografico che Guadagnino condivide in chiusura dell’incontro, e riguardante il mancato servizio di leva del regista: «Non lo feci perché chiesi di fare il servizio civile. Poi, quando mi arrivò la precettazione, dovevo andare nello stesso momento a Londra a preparare The Protagonists». Neanche a dirlo, la scelta ricadde sugli impegni artistici. E «venti giorni dopo vengono i carabinieri da mia madre. Subii un processo e fui condannato a sei mesi con la condizionale», ma anni dopo intervenne un’amnistia. Anche per questo, il regista cinefilo chiosa dicendosi «convinto che a tutto si possa porre rimedio».