L’attesa, Minuto 55 e Soleombre: il nuovo cinema (breve) italiano a Pesaro 60

Abbiamo intervistato i registi dei tre corti italiani presentati alla Mostra il 21 e 22 giugno fra le Proiezioni speciali.

0

Pochi luoghi come la Mostra Internazionale del Nuovo Cinema – Pesaro Film Festival hanno la stessa vocazione a rilanciare la scommessa su un cinema giovane che sperimenta, anche in Italia: tre validi esempi sono i corti presentati alla 60ma edizione il 21 e 22 giugno come Proiezioni speciali, ovvero L’attesa (11’42’’) di Michael Fantauzzi, Minuto 55 (6’) di Luca Arcopinto e Soleombre (28’) di Valerio Pisano e Luca Grimaldi, registi diversi per itinerari e generazioni, ma tutti ospiti per la prima volta della Mostra, dove hanno raccontato a Ciak i rispettivi progetti.

La scena dei sogni (e degli ossimori): L’attesa

Ha cominciato (da adolescente) col teatro il poliedrico Michael Fantauzzi (nato a Detroit nel 1967), ma dal 1996 è attivo (anche) come regista di corti, il primo dei quali, Sogno, lo fece entrare quasi trent’anni or sono alla FAMU di Praga. All’epoca risale anche la sceneggiatura de L’attesa, rimasta nel cassetto fino al 2022, quando si sono rese disponibili «delle mie risorse da poter investire: ho ricontattato, anche grazie a mia moglie che è metà ceca metà francese, un produttore esecutivo di Praga, e gli ho detto che volevo girare lì questo film».

E così è andata, coadiuvato da una troupe in parte italiana e in parte ceca, con protagoniste le attrici Marica Campus e Sofia Zecchinelli, già allieve di Fantauzzi (che ha fatto anche il critico cinematografico ed è produttore, tra le altre cose, dei lungometraggi La peil pulpo di Ana Cristina Barragán, Giulia e Taxi Monamour di Ciro De Caro). Ne L’attesa, invece, il filmmaker lavora sulla sua idea di cinema «molto vicino all’onirico: infatti uno dei miei idoli è Buñuel, un genio assoluto che forse più di tutti ha compreso il linguaggio cinematografico e, soprattutto, lo ha saputo realizzare. L’esperienza cinematografica e quella onirica non sono la stessa cosa ma hanno molti punti in comune».

Potrebbero essere un sogno, o un incubo, le due scene che il montaggio alternato articola davanti ai nostri occhi, fra una giovane donna nella sua stanza da letto e una misteriosa quanto minacciosa figura che le si avvicina. In un noir che sa di archetipi hitchcockiani ma anche di Beckett (viene in mente il pedinamento e la riflessione sul doppio di Film con Buster Keaton): il regista non fa mistero di «guardare al cosiddetto teatro dell’assurdo, dico cosiddetto perché in questa categoria vengono messe tante cose diverse, per esempio Beckett, Ionesco o altri autori che hanno in comune il fatto di parlare dell’assurdità dell’oggi: ma è la realtà ad essere assurda, non loro».

Non ci sono dialoghi ne L’attesa, solo immagini e (forse soprattutto) «suoni, non ci dimentichiamo l’importanza dei suoni, l’immagine senza i suoni è qualcosa di piatto, i suoni danno tridimensionalità: tutti noi sappiamo che i film non sono mai stati muti perché c’era la musica o degli effetti» (in un altro suo corto che sta girando i festival, L’ultimo giorno, Fantauzzi ha interamente ricostruito il sound per restituire il punto di vista di un uomo rimasto solo sulla Terra).

A informare il film visto a Pesaro, troviamo poi tutta una rete (anch’essa, inevitabilmente, onirica) di «ossimori senza sintesi» (dentro e fuori, sonno e veglia, luce e ombra), esplicitando l’impostazione nietzscheana del regista: «Nietzsche per me va oltre tutti, era capace di pensare l’inconciliabile, e forse lo era anche Marx, parlando di lotta di classe».

Non due opposti, ma due linguaggi ben distinti sono a loro volta cinema e teatro, comunicanti ma mai sovrapponibili nell’ispirazione di Fantauzzi: «Forse il teatro è più spazializzazione del tempo e il cinema è temporalizzazione dello spazio», riflette, citando gli esempi di Luchino Visconti e Orson Welles: «Venivano ambedue dal teatro, e che teatro!», ma entrambi hanno sposato in pieno (rinnovandolo) il mezzo filmico: «Welles ha inventato il piano-sequenza, l’ha preso dal teatro ma ha fatto qualcosa di puramente cinematografico». Visconti «non fa mai teatro nonostante sia tutto ricostruito, pensiamo solamente a Le notti bianche, quando con un movimento di macchina passa dal presente al passato».

Col palcoscenico dialoga anche un nuovo progetto cinematografico del filmmaker (che sarà nelle intenzioni il suo primo lungometraggio), tratto dal testo di un altro autore teatrale “dell’assurdo”, Jean Tardieu, «molto conosciuto in Francia e in Italia dimenticato, malgrado negli anni ’60 fosse rappresentato. La figlia mi ha concesso i diritti, entusiasta della mia riduzione, siamo diventati molto amici. Gino Sgreva sarà il direttore della fotografia, nel cast due attori ucraini già interpreti di Luxembourg, Luxembourg».

Il goal che scardina il genere: Minuto 55

Parte dalla volontà di girare «un thriller dentro una chiesa» Luca Arcopinto per il corto Minuto 55, suo primo lavoro da regista, realizzato come saggio finale all’Accademia del cinema Renoir di Roma: «Dovevamo girare un cortometraggio in un interno con due personaggi della durata massima di cinque-sei minuti». L’intuizione ulteriore gli viene da un video di YouTube, con la telecronaca di una celebre rete di Diego Armando Maradona. Ne nasce una svolta inaspettata nel confronto tra un prete e un giovane sicario, in un’Argentina quasi western (ma forse sono anche gli spettri mai davvero diradatisi della dittatura fascista di Jorege Videla).

«Sono un patito di calcio come la maggior parte delle persone a Roma», confessa il ventiduenne regista (anche sceneggiatore insieme a Dimitri Skofic), «anche se non ero nato al tempo del goal di Maradona, sin da quando ero ragazzino quella scena e quella telecronaca mi hanno appassionato, ci trovo davvero qualcosa di divino. Sono stato molto contento di metterlo nel corto e di crearci una storia attorno». Neanche a dirlo, un riferimento (oltre a Sergio Leone per la componente “di genere”) è stato il cinema di Paolo Sorrentino, e in particolare il corto del 2009 La partita lenta, «anche questo tutto senza dialoghi».

L’incontro, il crescendo di tensione e la svolta, infatti, fanno a meno (come ne L’attesa) delle parole, contando anche su due interpreti molto convincenti, Cesare Apolito (il sacerdote) e Giosuè Arcopinto (il sicario): «Li ho trovati letteralmente “in casa”, uno, il ragazzo, è mio fratello, aveva fatto solo qualche corto ma mi sembrava un volto molto interessante, l’altro, il prete, è un amico di famiglia che conosco da quando sono bambino, ha studiato recitazione al Centro Sperimentale di Cinematografia. Insieme hanno trovato subito la via giusta, non è stato difficile dirigerli».

Per il futuro, Luca Arcopinto non pensa già al lungometraggio, ma a portare a casa «un altro corto tra la fine dell’anno e l’inizio dell’anno prossimo, magari un po’ più lungo, 12 minuti». Intanto, «essere a uno dei più importanti festival italiani è già una soddisfazione».

Cantando nella periferia dell’anima: Soleombre

È dichiaratamente un musical, radicalmente anomalo e insieme bizzarramente classico, Soleombre di Valerio Pisanu e Luca Grimaldi (nati rispettivamente nel 1998 e 1997, laureati l’uno al DAMS di Roma Tre e l’altro in Letteratura Musica e Spettacolo alla Sapienza), che formano il collettivo Zattere assieme ai produttori del film, Marco Visicchio e Giacomo Rinaldini, anche loro a Pesaro insieme alla figura chiave di questo lavoro, il protagonista, co-sceneggiatore e autore delle musiche Giammaria Guglielmi.

«Con Giammaria», ci spiega infatti Pisano, «facevamo dei video musicali, quindi c’è sempre stata l’idea, dato il suo carisma, il suo modo di parlare, di fare un musical con lui e su di lui», mettendo in cortocircuito la sua arte «con un’estetica contemporaneamente dolce e atroce, qualcosa di vero e allo stesso tempo di estremamente artificiale».

Se infatti il film (la cui storia è il sequel di un lungometraggio che i due autori hanno già scritto) è stato girato a Guidonia, quella che vediamo è «una periferia non identificabile, ma che percepisci come tale in modo un po’ universale». È il luogo, in bianco e nero, dell’anima ferita dei personaggi (interpretati da attori non professionisti), che vagano nella notte tra alcol ed eroina, giochi a carte e rapine. Ma una chiamata persa al cellulare dà il via all’itinerario tormentato di Giammaria, in cerca della ragazza che ama, rimasta forse vittima di una violenza.

«Tante cose le abbiamo scritte partendo da quello che ci veniva da noi e, romanzandolo, da qualcosa che è capitato a Giammaria», precisa Grimaldi. Il sorprendente inizio, però, ci porta su un terreno apertamente allegorico, tra piani su strade vuote di presenze umane e coreografie di automobili che si guidano da sole, quasi a proseguire sulla via del provocatorio Holy Motors di Leos Carax: «Una metafora del protagonista e della sua ricerca», dice Pisano, «quasi come un racconto di fantasmi» – e hanno un’aura quasi ultraterrena le musiche che in questa parte anticipano le successive canzoni – «Ti accorgi che le macchine non sono guidate da nessuno, ma nonostante questo loro muoversi per inerzia, continuano a cercarsi, a trovarsi, e generano della luce in qualcosa di oscuro e inquietante».

Un’ambiguità che in fondo è già riassunta nel (bel) titolo del film, venuto fuori, racconta Grimaldi, «scrivendo il testo dell’ultima canzone con Giammaria: ci piaceva questo “So’ le ombre” che in romano può voler dire tre cose, “Io – o loro – sono”, “È colpa di queste cose”, “Conosco queste cose”».

Il cinefilo potrebbe divertirsi a scoprire una galassia di rimandi, consapevoli o meno, da L’odio a certi scorci urbani in profondità di campo di Lav Diaz, ma Pisano e Grimaldi citano «due riferimenti più spirituali che estetici, che sono Girotondo, giro intorno al mondo di Davide Manuli e L’imperatore di Roma di Nico D’Alessandria, non per quello che avevamo scritto a per il tipo di approccio. Ci piaceva quella libertà e quel senso grezzo della materia trattata, toccata però con purezza, con gentilezza».