Enzo D’Alò si racconta a Pesaro 60: «I bambini a volte capiscono meglio degli adulti»

Il grande animatore italiano è ospite il 20 giugno alla Mostra del Nuovo Cinema per la proiezione del suo recente lungometraggio "Mary e lo spirito di mezzanotte". Abbiamo parlato con lui del film, del suo percorso e della sua poetica che guarda al punto di vista dei più piccoli, con un pensiero (anche) a quelli vittime del massacro a Gaza.

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«Cerco sempre il punto di vista dei bambini, un punto di vista che non giudichi, io non amo i giudizi, non guardo mai dall’altro i personaggi come un dio, mi piace essere più “felliniano”», dice Enzo D’Alò, tra i più amati e significativi animatori italiani degli ultimi trent’anni, con titoli come La freccia azzurra, La gabbianella e il gatto, Momo alla conquista del tempo e, da ultimo, il recente Mary e lo spirito di mezzanotte, già presentato alla Berlinale 2023 e in tanti altri festival, fino alla serata del 20 giugno alla 60ma Mostra Internazionale del Nuovo Cinema – Pesaro Film Festival, a coronazione di una giornata apertasi con un altro maestro, il magnifico novantenne Manfredo Manfredi.

Con questo nuovo lungometraggio, tratto dal romanzo La gita di mezzanotte dell’irlandese Roddy Doyle, D’Alò torna a raccontare una storia di formazione che, come nell’adattamento del libro di Luis Sepúlveda, non teme di toccare il delicato nodo del rapporto tra vita e morte: «Il tema del distacco, della perdita», spiega il regista dialogando con i giornalisti, «non è il più importante qui, però, forse perché è stato un tabù, viene più affrontato da voi e anche dalle domande del pubblico. Alla fine, è un film che racconta la speranza, più che la perdita, resta un po’ sospesa l’idea di cosa ci sarà dopo la morte, ma non voglio dare risposte. Come lascia capire la canzone dei titoli di coda, qualcosa di noi resta. Il fatto di aver giocato, raccontato, trasmesso dei valori come fa, nel film, la nonna Emer con la nipotina, è fondamentale per una nuova vita, quella di Mary, che ha bisogno di radici per guardare al futuro».

Una prospettiva che si nutre in questo caso degli spunti offerti dal folklore irlandese: «In Irlanda già il rapporto con i fantasmi è completamente diverso, noi pensiamo sempre ai film dell’orrore quando compaiono i fantasmi». Qui invece, «come già nel libro dei Doyle, la presenza “fantasmica” è quella di una persona di famiglia con cui si chiacchiera tranquillamente, non ci si preoccupa del fatto che sia un’essenza immateriale». Anzi, «una volta svelata diventa subito simpatica e divertente, e l’immateriale ho cercato di raccontarlo come un modo di vedere la vita “rilassato”, senza più preoccupazioni corporali: cammina, attraversa le porte, prende le cose in mano, scherza e gioca, è quasi privilegiato il ritorno alla vita da parte della bisnonna di Mary».

Ritroviamo alcune costanti del lavoro di D’Alò, a partire dalla predilezione per soggetti ispirati alla letteratura. E però, precisa, «leggo per il piacere di leggere. Allo stesso modo comincio inevitabilmente a costruirmi il mio film in testa, perché ogni lettore è il regista di se stesso quando legge un libro, la mente sostituisce alla parola scritta i volti dei personaggi, le voci, a volte anche le musiche. Per questo leggere è più importante che vedere un film, lo dico a mio discapito. Perché leggere ti dà una possibilità maggiore di capire i film».

A questo si unisce «molto della mia esperienza personale, la mia visione del mondo, come è, come vorrei che fosse, come cerco di trasformarlo. Questo si sente, io parto sempre da un’esperienza reale, anche quando si incontrano due animaletti paradossalmente nemici ma che diventano amici. Se non mettiamo noi stessi nella realizzazione del film non possiamo pretendere poi che il pubblico resti coinvolto».

E il coinvolgimento, ove possibile, è anche degli scrittori chiamati in causa, o di loro congiunti e stretti collaboratori: «Nel caso di Gianni Rodari ho lavorato con sua figlia Paola. Sepúlveda è stato divertentissimo, era bello lavorare con lui ma anche andare a cena insieme, ci sono stati tanti momenti belli che ricordo con affetto. Michael Ende era già morto, ma ho parlato col suo editore e “figlio spirituale”, che mi ha dato una serie di raccomandazioni su come affrontare il racconto, anche perché Ende era stato scottato molto dalla Storia infinita, dove il film aveva travisato totalmente il suo pensiero, malgrado lui avesse cercato di indirizzarli e poi addirittura di bloccare la trasposizione. Pinocchio è un altro di quei casi in cui ogni volta si trova una chiave di lettura diversa, è il libro più venduto dopo la Bibbia e il Corano, mi pare, forse per questa sua possibilità di guardarlo da tanti punti di vista. Io ho utilizzato quello del rapporto tra padre e figlio». Una proficua e amichevole collaborazione è stata poi quella con Doyle: «Ha scritto anche alcuni dialoghi del film e i testi delle canzoni, inoltre è presente in un piccolo cameo».

In Mary e lo spirito di mezzanotte ritroviamo inoltre il rapporto strettissimo con la componente musicale: «Mi piace molto lavorare con il musicista, cesellando insieme a lui qualcosa che non deve essere mai un riempitivo ma che sottolinei in ogni momento quanto succede». Un processo «lungo e articolato», che inizia dalla sceneggiatura e prosegue con «un forte collegamento tra scene, racconto e musica: a volte ho bisogno io di cambiamenti e a volte ne ha bisogno la musica, facendomi tornare indietro a rifare una piccola parte del film». Non per nulla D’Alò è stato musicista (autodidatta), prima ancora che animatore. Per questo «mi piace molto aiutare i musicisti, loro sono contenti di lavorare con me perché so cosa mi possono dare, non chiedo l’impossibile ma certe volte so indirizzarli nella direzione giusta».

Com’è nato allora l’interesse per i disegni animati? «In maniera casuale ma fondamentale per il mio modo di fare film: ho lavorato per più di 10 anni con i bambini, dall’età prescolare fino ai licei. E ho imparato molto più di quello che insegnavo, sono tornato bambino insieme a loro nel modo di narrare, i bambini sono dei grandi narratori, una volta che gli si fornisce gli elementi necessari, perché non hanno l’esigenza di arrivare subito in fondo. Faccio sempre l’esempio di un adulto che deve andare da Torino a Milano e prende l’autostrada, il bambino si fa tutte le strade di campagna, gode del viaggio più che dell’arrivo. Questo l’ho imparato anch’io, ogni momento del film è importante».

Uno schema, non a caso, «tipico dei romanzi di formazione. C’è un film di Wenders, Falso movimento, che racconta al meglio il viaggio di formazione, addirittura il punto di arrivo è lo stesso del punto di partenza, si torna al punto A ma completamente diversi perché ci sono stati incontri, considerazioni, scelte, quindi sei cresciuto».

Peraltro D’Alò non crede a una distinzione rigida tra film rivolto o meno ai più piccoli: «Cosa vuol dire fare un film per bambini? Che deve essere semplice sennò i bambini non capiscono? No, i bambini capiscono a volte meglio degli adulti, perché sono più diretti, più schietti, meno omologati, non hanno i tabù che abbiamo noi adulti, formati in un certo modo dalla società. Non credo che esistano film per bambini, esistono film in cui anche i bambini possono essere interessati a dare il loro apporto».

Da questo punto di vista è importante superare, specie in Italia, il pregiudizio sull’animazione come genere rivolto esclusivamente all’infanzia: «Siamo più indietro rispetto ad altri Paesi, però io sono una persona ottimista sennò non farei questo lavoro, e quindi sono sicuro che ci arriveremo, è un percorso lungo».

Da mettere in conto tuttavia i problemi di finanziamento che affliggono oggi le produzioni animate: «È divertente perché qualche mese fa ci sono stati convegni in cui si diceva che bisognava difendere l’animazione italiana». In contrasto, però, con «bandi estremamente penalizzanti, non si fa in tempo a fare il film che già scadono. E non credo che ci sia malafede, credo ci sia un’incompetenza rispetto alle problematiche dell’animazione, forse bisognerebbe ci fosse un legame più stretto tra le associazioni, gli autori e chi scrive i bandi». E in questo senso non ci si può accontentare del pur ottimo risultato che sta ottenendo in questi giorni al botteghino Inside Out 2: «Sono contentissimo, ma è un film Disney, e la qualità di un lancio Disney non è paragonabile alla qualità del lancio di una produzione europea».

Intanto, comunque, lo sdoganamento dei temi più maturi procede, e «gli autori giapponesi e asiatici ci hanno aiutato molto ad andare in questa direzione con i loro film, mi sento molto vicino a questo tipo di cinematografia». Che, aggiunge, non si limita a far ridere ma «affronta problematiche personali, interpersonali e sociali».

A un autore trasversale e attento alla realtà come alla prospettiva dei giovanissimi, allora, non si può non chiedere un’impressione e una riflessione sull’offensiva militare israeliana a Gaza, dove donne e bambini sono la parte maggioritaria delle quasi 40 mila vittime sino a questo momento: «Il mio coinvolgimento è certamente totale, e anche il rifiuto di questa situazione. È facile dire che siamo contro la guerra, lo dicono tutti, poi però dicono che per arrivare alla pace dobbiamo fare la guerra! Sono quelle frasi che chiunque può gridare e che non vorrei più sentire. Perché ci vogliono fatti e non parole».

Impossibile del resto, per D’Alò, ipotizzare oggi un film sull’argomento: «Ho addirittura il timore che profanerebbe il dolore di queste persone. Credo che qualcosa si potrà fare una volta che si sia risolta tutta questa sofferenza, adesso dal mio punto di vista sarebbe forzato, potrebbe servire forse a me e a farmi conoscere meglio ma non a loro, che forse sarebbero i primi a non amare vedersi raccontati in un film d’animazione, che per forza di cose semplifica dinamiche complesse e articolate, dove non è così facile dare la colpa all’uno o all’altro, sono situazioni incancrenite da decenni, nel caso della Palestina da millenni. Posso partecipare ai lutti e alla sofferenza di questo popolo, ma non mi verrebbe mai in questo momento di raccontarla».