A Pesaro 60 il ritorno di Franco Maresco: «Il cinema è morto»

Il regista palermitano è intervenuto per l'Evento speciale sul cinema italiano della Mostra. Criticando senza mezzi termini l'industria culturale e la società italiana. E il nuovo progetto (su Carmelo Bene), potrebbe essere l'ultimo.

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Un incontro di novanta minuti con Franco Maresco, come quello svoltosi il 21 giugno alla 60ma Mostra Internazionale del Nuovo Cinema – Pesaro Film Festival, può liberare, irritare, esaltare, scandalizzare, incupire (a seconda dei punti di vista) o tutte queste cose insieme. Un effetto simile a quello del suo cinema e della sua (Cinico) tv: di sicuro, è un evento che rompe ogni liturgia di quell’industria culturale sferzata, una volta di più, da uno dei suoi maggiori outsider (in Italia e non solo).

E infatti, di colpo, sembra di ritrovarsi in uno dei suoi film: grottesco, surreale, cattivissimo e senza compromessi, dove i presenti, compresi i moderatori Pedro Armocida (direttore della Mostra) e Fulvio Baglivi – curatore della monografia Marsilio su Maresco (fra i protagonisti dell’Evento speciale sul cinema italiano, quest’anno tripartito) intitolata non casualmente Ad malora! – si ritrovano tutti personaggi e spettatori della nuova, disincantata e malinconicamente feroce invettiva del cineasta palermitano sulla società e la vita stessa. In attesa del suo nuovo progetto su Carmelo Bene (a cui sta lavorando e che non sarà una biografia).

«Sono nottambulo e per essere a questo appuntamento non ho dormito», avvisa lui: ma in realtà è, come di consueto, lucidissimo, se ne condividano o meno i giudizi estremi e sconforta(n)ti. A Pesaro, Maresco ci era stato nel 1996, «un anno disgraziato: era morto mio fratello e anche Daniele [Ciprì, suo ex collaboratore] aveva avuto un lutto», ricorda. Ma ebbe la gradita sorpresa di incontrare un suo illustre estimatore, Marco Ferreri, folgorato sulla via di Cinico Tv (lo straniante programma satirico sperimentale su Rai 3) come Gian Maria Volonté. «Era ancora un periodo in cui credo ci fosse un certo tipo di rigore, delle differenze nel cinema», in particolare, ricorda Maresco, tra prodotto d’autore e commerciale «e questo non per fare muri settarismi, ma perché credo sia giusto».

Quasi trent’anni dopo, si scusa di essere tornato solo in collegamento, ma, confessa, non ha più il documento d’identità: «Mi sono scordato di rinnovarlo, ma non immaginavo di diventare, e questa è quasi una categoria filosofica, “incertificabile”»: infatti, non avendo più la precedente residenza, «avrei dovuto aspettare dai 90 ai 120 giorni: siamo in Italia e in particolare a Palermo». Provando poi a fare il tragitto fra macchina e nave, data la poca sopportazione per quest’ultima, sarebbe «arrivato cadavere. E non valeva la pena: ti rispetto, Pedro Armocida, se ci fossimo conosciuti fisicamente due o tre volte sarei venuto anche su un carro funebre, ma non avevo sufficienti motivazioni».

È l’umorismo di Maresco, crudele come quello dei grandi comici, dove c’è sempre «la morte in azione», afferma citando il conterraneo drammaturgo e attore Franco Scaldati (cui ha dedicato nel 2015 Gli uomini di questa città io non li conosco), che commentava lo sketch della bilancia di Franchi & Ingrassia. «Lui partì da questo per dire che il comico è funereo». E Maresco sottoscrive. Non pensa, a differenza degli «amici Ficarra e Picone», anche loro ospiti e omaggiati a Pesaro 60, che se oggi Chaplin fosse vivo si esibirebbe su TikTok. Perché il comico vero, per il regista, richiede «disperazione, una visione del mondo anarchica, dinamitarda, il comico è solo contro tutti». E questo, oggi, «non è più possibile». Sulla gran parte dei contemporanei, allora, il giudizio è netto: «Sapete cosa sono, questi comici e comiche? Sono esattamente le persone che, ai miei tempi, erano i nostri compagni di classe, quelli più brillanti, che in pullman facevano ridere. Si sono spostati davanti a una telecamera».

Cita a mo’ di esempio i politici che ridono delle imitazioni di Maurizio Crozza, ma tranquilli, Maresco ne ha per tutti. Non risparmiando, ad esempio, il successo di C’è ancora domani: «Non c’è ragione per cui un film faccia quaranta milioni e si esulti, perché quel film è brutto». In realtà ammette di averne visto solo pochi minuti (non riuscendo a sopportarne il bianco e nero), ma il suo vero problema è con chi ritiene che il pubblico abbia sempre ragione: «Il pubblico spesso è cialtrone, è pigro, è codardo, non prende posizione». Un altra frecciata va a ciò che chiama “camillerismo”: «Come persona a me Camilleri era simpaticissimo, gli piaceva quello che facevamo, bontà sua. È stato un conversatore abilissimo, non è stato a mio avviso un grande scrittore». Ne critica soprattutto la «visione edulcorata, oleografica, cartolinesca della Sicilia», che definisce «da salotto di Serena Dandini».

Comunque la si pensi, della Sicilia e di Cosa Nostra, Maresco (in coppia, per oltre 20 anni, con Ciprì, e poi da solo), ne ha parlato come nessun altro. Con titoli come quelli proiettati a Pesaro il giorno del suo intervento: Enzo, domani a Palermo! (2009), Belluscone – Una storia siciliana (2014) e La mafia non è più quella di una volta (2019, premiato a Venezia in assenza dell’autore). Ribaltando quella che (richiamandosi a Goffredo Fofi) definisce una rappresentazione della mafia (da Sciascia in poi) «come qualcosa di distante, un mistero, fino ad arrivare a forme di astrazione quasi metafisica». La sua invece è «una lettura umoristica» che deforma le immagini e i corpi degli attori: «Non so se si possa dire satira, perché non mi è mai piaciuta, ma una sorta di presa in giro di questa visione “cartolinesca”».

Con Belluscone però «il discorso si fa ancora più estremo: lì veramente tutto è collassato». Lo scenario, da quel momento, diventa «l’azzeramento di senso», dove «non c’è più bene, male, mafia, antimafia: siamo nella società dello spettacolo, è finita».

E il pessimismo storico sfocia in cosmico: «Sono ultra-ultra-sessantenne, sono molto stanco, ossessivo-compulsivo, depresso: meno ti curi e più certe situazioni si aggravano, anche al cospetto della crudeltà dell’esistenza o dell’indifferenza della vita». Né Maresco riesce ad adottare quelli che chiama «meccanismi dell’auto-illusione» osservati i molti suoi colleghi. «Non riesco ad ingannarmi». Piuttosto, «si continua, a un certo punto, perché sei dentro la vita». Ma il sentimento, sottolinea, è di orrore. Orrore, anche, «per quello che voi celebrate in questo festival, il cinema. Il cinema non mi dà niente da un sacco di tempo».

E contraddice lapidario chi professa la fede nelle capacità palingenetiche della settima arte, perché «il cinema è morto, è vecchio e morto». Quello italiano, per Maresco, sta se possibile ancora peggio di altri. «Non funziona più produttivamente», e anche il pubblico, «che si assolve sempre, è colpevole». Perché una volta «si prendeva posizione nelle cose culturali, una vera posizione, questo non c’è più oggi, è solo una melassa generale. E, quando c’è una polemica, è solo una polemica dei clan prevalenti nei confronti di qualche disperato, di qualche soccombente».

C’è chi paragona (non a torto) questo Maresco apocalitticamente disilluso all’ultimo Pasolini. Ma lui mette le mani avanti: «In questo nostro paese contemporaneo c’è stata un’appropriazione indebita della figura di Pasolini», una trasformazione in icona (di consumo) mediatica cui lui, con Ciprì, si era già opposto nel 2000 col corto Arruso (“omosessuale” in palermitano): seguendo un «approccio grottesco, dissacratorio. Ma penso che sarebbe piaciuto a Pasolini, invece del “santino veltroniano”».

E però l’essere così fuori dal coro non rischia paradossalmente di trasformare Maresco in un altro “personaggio” del sistema da lui rifiutato? «Non credo», replica alla domanda, «per una semplice ragione. Quel poco che faccio, lo faccio per salvare delle persone della mia vita privata, familiare. Se io non avessi delle responsabilità, da tempo, filosoficamente, mi sarei soppresso. Chi mi conosce sa perfettamente che è così».

E aggiunge: «Non vado in televisione, non sono consultato, un tempo ci invitavano a me e Ciprì, non sono mai andato. Costanzo è stato per anni dietro a me e Daniele, in un periodo di grande fortuna professionale per noi. Non vado, e quando succede è perché se stai facendo un film provi a dire “esisto ancora”, altrimenti sparisci. Ma lo faccio con la nausea, con disgusto e le bustine di Biochetasi accanto». E dopo il film su Bene, «non so se ce ne saranno altri»: l’auspicio, chiosa sarcastico, è piuttosto di avere «altre entrate che mi permettano di non dover continuare a frequentare il cinema italiano, togliendo i presenti e gli amici che mi sono fatto negli anni».

Difficile allora ci siano parole di speranza per chi (come i tanti giovani presenti alla Mostra) si avvicina non senza difficoltà al mondo dell’audiovisivo. «Sono cresciuto col cinema che era ancora una forma di stupore», dice, ricordando lo shock per la scena di un equilibrista caduto dal filo in diretta tv. Ma adesso, complici le nuove tecnologie, «se vedi milioni di immagini di tutto, giorno per giorno», diventa impossibile «mantenere una purezza di sguardo, uno stupore». Alla domanda di uno studente sul futuro, la risposta dell’“incertificabile” Maresco è allora: «Le auguro solo buona fortuna. E che io mi sbagli».