In questa pagina:
- Il mestiere di vivere di Anna Gagliardo
- Gingerbread for Her Dad di Alina Mustafina
IL MESTIERE DI VIVERE
Italia, 2024 90’
Il documentario prende avvio dalla fine: vale a dire dal fine settimana del 26 e 27 agosto 1950. È l’ultimo, frenetico giorno di vita di Pavese. Si aggira per la città deserta, cerca amici che non trova, scrive, telefona. La domenica sera mette fine alla sua vita. Questo epilogo è la premessa per raccontare un’altra storia. La storia di un uomo, di uno scrittore, di un intellettuale che nella sua breve vita è riuscito a creare un nuovo mondo letterario e culturale che ha segnato la seconda metà del Novecento italiano.
La regista, Anna Gagliardo
Monticello d’Alba, (1941) si avvicina al cinema in qualità di sceneggiatrice e aiuto regista del grande cineasta ungherese Miklós Jancsó, collaborando a titoli quali La pacifista (1970), La tecnica e il rito(1972), Roma rivuole Cesare (1974) e Vizi privati, pubbliche virtù (1976). Esordisce alla regia nel 1978 con Maternale, lettura psicologica e simbolica del rapporto madre-figlia, a cui segue nel 1983 il noir Via degli specchi. Nel 1991 dirige Caldo soffocante, ambientato nella torrida Roma dei mondiali di calcio del 1990, che inaugura Quinzaine des Realisateurs di Cannes. Dagli anni Novanta in poi si dedica brillantemente al documentario e dopo Viva l’Italia (1995) e Che colpa abbiamo noi (1997) torna alle tematiche femminili realizzando Bellissime (2004), storia del Novecento italiano ricostruita attraverso un’ampia galleria di donne. A partire dal 2007 ha lavorato per l’Istituto Luce ricostruendo con i materiali di repertorio una storia del costume e della moda italiana fino agli anni sessanta con L’abito di domani – Storia della moda nel tempo (2009). Dopo altri documentari che esplorano sia la storia passata che la complessità del presente, nel 2024 omaggia Cesare Pavese con Il mestiere di vivere. «Pavese l’ho incrociato nella mia adolescenza torinese e non solo. Ovviamente l’ho amato, l’ho letto – racconta – Ho imparato a memoria molte delle sue poesie. L’ho messo tra i ricordi di quel fruttuoso passato vissuto nella Torino irripetibile degli anni ‘60. Ritrovarlo e rileggerlo oggi, a distanza di tanti anni, è stata per me una vera e propria folgorazione. Prendi in mano i suoi romanzi, le sue poesie, soprattutto i suoi diari e già dalle prime righe capisci che ti sta parlando del “presente”. Non del suo presente, ma del “nostro”. Mette in scena la complessità degli eventi e ti fa capire che non hai scampo. Ti costringe a non cercare risposte semplici, ti sbarra la strada se provi a schierarti. Ti mette alla prova».
GINGERBREAD FOR HER
Kazakistan 2024, 84’
Insieme alla figlia e alla nipote (nonché regista del film), Lyabiba intraprende un viaggio dal Kazakistan alla Polonia per trovare la fossa comune dove suo padre è stato presumibilmente gettato durante la Seconda guerra mondiale. Mentre viaggiano attraverso il loro paese natale, queste tre donne di generazioni diverse cercano di ripristinare anche il loro legame perduto, affrontando i traumi del periodo post-sovietico e provando a dare un senso alle loro origini e alla loro identità. Nel frattempo la guerra fra Russia e Ucraina entra nella sua fase più drammatica, con molti russi che si trasferiscono in Kazakistan a causa della mobilitazione di massa
La regista, Alina Mustafina
(Kazakistan) è una giornalista, scrittrice e regista. Si è laureata in giornalismo e regia nel suo paese e poi presso la New York Film Academy negli Emirati Arabi Uniti e la ESCAC – Escola Superior de Cinema i Audiovisuals de Catalunya di Barcellona. È anche scrittrice di saggistica e nel 2021 il suo libro sulle esperienze personali a Dubai è diventato un bestseller in patria ed è stato pubblicato con successo in Russia. Il suo corto documentario Ander (2020) è stato realizzato sotto la guida di Rithy Panh e ha vinto il premio come miglior documentario all’Ajyal Film Festival di Doha. Il precedente cortometraggio Rescue Masha (2018) è stato invece selezionato a Istanbul, Riga e Mosca. Gingerbread of Her Dad è il suo primo lungo documentario. «Mi definisco una nomade, proprio come i miei antenati – dichiara – Sono una kazaka con due bambini turchi e due nonne tartare. Vivo all’estero da quando ho 14 anni e da allora mi sono spostata in cinque paesi diversi. Adattandomi da ogni parte, mi sono allontanata dalla mia famiglia finendo per sentirmi un’estranea anche nel mio paese. Parlo quattro lingue, nessuna delle quali è la mia lingua madre. Un paio di anni fa ho deciso di tornare nella mia città natale e vivere lì per un po’, cercando risposte alle mie domande: dov’è la mia casa? dove sono diretta? a quale posto appartengo? Ho scelto di cercare queste risposte insieme alle donne della mia famiglia intraprendendo un viaggio verso l’Europa dell’Est, dove il mio bisnonno morì durante la Seconda Guerra Mondiale e fu sepolto in una fossa comune. Ho convinto mia madre e mia nonna a intraprendere questo viaggio sperando di trovare risposte alle domande che preoccupano non solo me, ma anche il mio paese. Domande sull’identità di quei kazaki che, come me, non parlano la propria lingua d’origine, non hanno sangue russo, e tuttavia pensano, parlano e creano in russo».