L’appuntamento con il Presidente del Centro Sperimentale di Roma è sulla terrazza, con vista mozzafiato, dell’hotel più rinomato di Taormina. Sergio Castellitto arriva qualche minuto prima dall’inizio della proiezione, nella versione integrale, di Va Savoir di Jacques Rivette, film del 2001 presentato in concorso al 54° edizione del Festival Cannes nella versione originale.
«Marco Müller mi ha fatto un regalo enorme invitandomi per la versione integrale che non avevo mai visto di questo film – confida l’attore-regista charmant nel suo completo di lino total white – pensate che sono state aggiunte alcune scene che ho sicuramente girato ma di cui non ho memoria».
Come è possibile non ricordare alcune scene?
Io ho memoria di tutto. Ogni scena di ogni film che ho fatto, mi ricordo la temperatura che c’era sul set, quello che avevo mangiato, cosa era successo, perché il macchinista aveva sbagliato il movimento, mi ricordo tutto. In questo caso no. Penso che il rimosso sia la quinta essenza del cinema, e che soltanto il cinema può riproporlo.
Che ricordi ha di quel film?
Bellissimi. Dovete sapere che la regia teatrale di quello che vedete nel film l’ho fatta io. Rivitte mi disse “visto che il tuo personaggio è il direttore della compagnia, allora la regia teatrale la fai davvero tu!”. E pensi che non ha mai preteso o chiesto di cambiare un movimento che io dicevo di fare agli attori o a me stesso. Lui girava facendo dei lunghi carrelli, si avvicinava, si allontanava. Erano sequenze anche molto lunghe.
Come mai non aveva mai visto questa lunga versione?
Non saprei. Pensi che anche quando stetti in giuria a Cannes con Jeanne Balibar, co-protagonista del film, mi disse che la versione integrale era davvero prodigiosa. Però non avevo ancora avuto occasione di vederla.
Con Rivette fece anche un altro film “Questioni di punti di vista”, come fu il vostro rapporto?
Il titolo originale di quel film era 36 vues du Pic Saint-Loup. Certo che noi italiani siamo maestri a inventare dei titoli che allontanano il pubblico… Se qualcuno mi facesse la domanda, quali sono stati i tuoi maestri io risponderei con tre nomi: Ettore Scola, Marco Ferreri e Jacques Rivette. Lui consegnava agli attori una dignità autoriale che io raramente ho incontrato nella mia carriera. Con lui ho imparato a rivendicare il diritto di firmare in basso a destra il quadro della mia interpretazione all’interno di una gabbia che mi viene suggerita, consegnata, proposta o imposta. Perché c’è anche tanta libertà nel subire la volontà di un regista.
Perché Rivette scelse di rappresentare nel film proprio un testo di Pirandello?
Perché Pirandello è lo snodo cruciale tra teatro dell’ottocentesco e teatro della psicanalisi. Per cui è di una modernità impressionante. Credo che lui volesse proprio mischiare le lingue ma non le lingue parlate, le lingue del teatro. La lingua del teatro alto di Pirandello e la lingua del teatro dei camerini, quella che usano gli attori quando escono di scena e si portano i loro turbamenti nei loro camerini, nel loro guardarsi allo specchio. In questo è stato unico.
Anche per lei Pirandello è importante.
Pirandello è un pallino della mia vita. È per un periodo lo è stato anche di Marco Bellocchio.
Bellocchio in molte interviste la cita spesso come di una collaborazione meravigliosa. Vale anche per lei?
La parola esatta per descrivere il nostro nostro rapporto è fratellanza artistica. È cominciata perché doppiai Lou Castel nel suo film Gli occhi, la bocca, poi fui il protagonista di L’Ora di religione e poi de Il regista dei matrimoni per cui insomma Marco è stato sicuramente uno dei miei passaggi cruciali, di crescita, di coscienza e anche con lui ebbe un rapporto di questo tipo con me. A volte mi mostrava delle sequenze di film e mi chiedeva anche un parere su certe certi passaggi di montaggio.
Cosa pensava Rivette di lei come regista?
Non me ne ha mai parlato ma non credo che fosse molto interessato ai miei lavori. Io avevo fatto Non ti muovere in quegli anni. Sicuramente aveva visto i miei film come attore, sicuramente avrà visto La Carne di Marco Ferreri visto che erano amici.
Lei che qualità si riconosce come regista?
Io non mi sono mai considerato un regista tantomeno un autore e devo dire che non sono mai stato neanche riconosciuto come tale. Lo dico proprio con coscienza.Per cui non mi sono arreso ma mi sono reso contento del fatto che sono un attore prestato ogni tanto al racconto della regia.
Poi ho fatto i film perché ho scritto i libri. Però da quando ho cominciato a fare i film come regista ho capito di aver fatto dei passi avanti anche come attore. Penso che un attore racconti comunque una storia come la racconta il regista o lo scenografo attraverso il suo disegno visivo, e così via. Per scherzo ma neanche tanto ho sempre detto che non faccio l’attore ma il protagonista che è un mestiere diverso perché sei gli occhi del regista.