Il conflitto israelo-palestinese nella metafora cinematografica di Amos Gitai

Nella sezione Focus Mediterraneo del Taormina Film Festival il regista israeliano Amos Gitai (Eden, 2001, Laila in Haifa, 2020) sabato 13 luglio ha presentato il suo nuovo film, Shikun, un progetto d’arte cinematografica, quasi un’istallazione di 84 minuti, che affronta alcuni dei temi più scottanti del conflitto israeliano-palestinese, della guerra in generale e dei sistemi politici attuali.

Shikun racconta le vite di 20 personaggi che vivono in un enorme complesso edilizio popolare nel deserto del Negev. I loro cammini si intrecciano e si intersecano attraverso una serie di episodi di vita ordinaria che si svolgono nell’unico spazio dell’edificio Shikun a Israele, creando un dialogo unico attorno l’emergere dell’intolleranza e del pensiero totalitario.

Ispirato all’opera teatrale di Eugene Ionesco che Gitai ha trovato quasi “profetica”, Shikun è soprattutto un film che desidera porre questioni in essere, sovvertire la prospettiva dei temi sociali, politici e culturali più importanti, come la guerra, la convivenza tra popoli e culture differenti e le strutture di governo, e fare domande.

Gitai, incontrando il pubblico del Taormina Film Festival, ha spiegato che Shikun pone un tema cruciale la cui risoluzione rimane aperta: “Il conflitto [tra Israeliani e Palestinesi] non sarà mai risolto con l’opposizione di due forze e se non pensiamo all’altro non saremo mai in pace”.

Gitai, che nei suoi film si è sempre dimostrato molto critico verso il governo israeliano anche a rischio di incorrere in censure spesso pesanti, ha spiegato: “Originariamente io sono un architetto, non ho mai studiato in una scuola di cinema; quindi, se faccio un film è perché ho qualcosa da dire, ma non in un senso didattico. Un film dovrebbe aprire la mente delle persone e questa è la ragione per cui li faccio”.

Ogni aspetto in Shikun, dalla scenografia al linguaggio, è infatti pensato come metafora di un messaggio molto articolato, che il regista desidera veicolare inserendolo in una struttura narrativa delle immagini e dei movimenti molto complessa. “È facile ridurre un’opera cinematografica ad un film di propaganda. Penso che siamo troppo influenzati dalla cultura cinematografica di Netflix, che sta diventando assai riduttiva e dobbiamo reinventare il cinema come un nuovo mezzo”.

Il regista, che considera ogni suo film come una sorta di viaggio e sperimentazione, infine conclude: “[Shikun] mostra che ci sono persone che non accettano le divisioni. È una sorta di fiume sotto forma di dialogo”.

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