Intervista a Stefano Bessoni: «Le infinite strade dell’animazione dark»

L’estetica visionaria e fiabesca ispirata ad un immaginario gotico da cui nascono personaggi bizzarri, grotteschi e a volte persino macabri fa immediatamente pensare al cinema di Tim Burton, ma il regista statunitense di cult iconici è solo la punta dell’iceberg di una corrente artistica che non riguarda solo il cinema. Per illustrare il peso e la complessità di quello stile che – per usare un neologismo francese – è chiamato ‘burtonesque’, Cartoons on the Bay dedica una mostra al mondo perturbante della stop motion creato da Stefano Bessoni, regista, scrittore, illustratore e animatore, dal titolo “Stefano Bessoni. Stop-motion e altre scienze inesatte”.

Il vasto lavoro di Bessoni, che va dalla realizzazione di illustrazioni, storie, personaggi e burattini, film e libri, esplora proprio quell’anima nera dell’animazione, con i suoi temi misteriosi, oscuri e a volte raccapriccianti che spesso viene stigmatizzata come poco adatta all’infanzia. Sebbene l’artista non realizzi le sue creazioni con l’intento di rivolgersi ad un pubblico particolarmente giovane, sono proprio questi ultimi oggi ad essersi dimostrati più affascinati da questo mondo immaginario e gotico. Intervistato da Ciak, Bessoni ne spiega le ragioni.

“Viviamo nella cultura del rimosso, in cui determinate tematiche come la morte, il malessere, la diversità e la sessualità sono state messe a tacere, perché si è pensato che questo potesse avere delle ripercussioni sulla formazione psico-intellettiva dei bambini. A questo processo di rimozione ha contribuito la stessa Disney, che con i suoi seppur meravigliosi lavori ha operato un percorso di edulcorazione della fiaba. Eppure, una delle funzioni primarie della fiaba era proprio quella di terrorizzare per mettere in guardia il bambino dai pericoli. In questo senso le nuovissime generazioni sono molto più aperte e ricettive rispetto a questo genere di linguaggio visionario e stanno consentendo il recupero di quelle rappresentazioni che permettono di vivere e pacificarsi con il concetto di morte e dolore”.

In che termini avverte l’influenza dello stile di Tim Burton?

Una certa influenza c’è, anche per la sua notorietà, lo sento come una sorta di modello a cui guardare, ma i miei principali punti di riferimento sono altri. Penso a Peter Greenaway, Wim Wenders, che, anche se può sembrare strano, mi ha trasmesso tante suggestioni entrate nel mio lavoro, e poi a film come Eraserhead – La mente che cancella (1977) di David Lynch o Donnie Darko (2001) di Richard Kelly. Per restare nell’ambito della stop motion sono stato ispirato da autori come Jan Švankmajer, i fratelli Stephen e Timothy Quay e Władysław Starewicz, Jiri Trnka e lo stesso Ray Harryhausen con i suoi mostri spettacolari. Il burtonesque è proprio una corrente stilistica legata alla diversità, all’essere incompresi, espressa con una forma artistica caratterizzata da sproporzioni fisiche, caricature e determinate modalità di racconto. Questa si lega ad un’altra corrente artistica con autori molto burtoniani come Mark Ryden o Ray Caesar detta pop surrealism o lowbrow nata proprio nei dintorni di Los Angeles negli stessi anni di Tim Burton, sebbene quest’ultimo non abbia mai dichiarato di esservi in qualche modo legato

E lei come si è accostato a questo genere di arte?

In realtà sono partito da studi scientifici di zoologia e anatomia che poi ho abbandonato, ma sono comunque rimasti nel mio immaginario. Da giovane pensavo di diventare zoologo, facevo il disegnatore scientifico e all’epoca mi occupavo di pipistrelli, chirotteri; comunque, anche nel mondo animale andavo a cercare la diversità, il reietto. Un giorno però ho letteralmente appeso il camice e mi sono iscritto all’Accademia di Belle Arti, sono stato folgorato dal cinema e ho deciso di diventare regista e, dopo essere stato assistente di Pupi Avati, ho realizzato i miei primi film. Quando però non sono stato più in grado di mettere in piedi progetti cinematografici, è tornata l’illustrazione nella mia carriera, le mie sceneggiature sono diventate disegni e da lì ho capito che ci sono infinite strade per raccontare le storie in strutture libere e aperte. Fino a quando poi, con il digitale, è arrivato il momento in cui l’evoluzione tecnologica dell’animazione in stop motion era pronta per permettermi di sperimentare una forma di narrazione con quei burattini, pupazzi e quelle creature che ho sempre amato realizzare”.

È così che è nato il suo film in stop motion Krocodyle (2011) che è qui in mostra?

Sì, con questo film ho proprio potuto raccontare le mie difficoltà nel mettere in piedi un progetto. Krocodyle è un mio autoritratto in forma fantastica, è un film molto importante e ci sono particolarmente legato

Scopri qui Krocodyle di Stefano Bessoni

Come è nata questa mostra?

Vengo da una mostra molto importante al Museo Nazionale del Cinema dove il direttore Domenico De Gaetano ha voluto dedicare uno spazio al mio immaginario. Da lì Roberto Genovesi e Federica Pazzano mi hanno proposto a loro volta di realizzare una mostra anche qui a Cartoons on the Bay, proprio per far vedere qualcosa di poco conosciuto e che merita di essere visto”.

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