Fra i momenti più significativi del 15° Ca’ Foscari Short Film Festival, c’è stato l’incontro con l’animatore e illustratore marchigiano Roberto Catani (classe 1965), che dialogando con Andrijana Ružić ha ripercorso la sua carriera cinematografica fatta di corti come gli iniziali Il pesce rosso (1995), La sagra (1998) e La funambola (2002). Questi ci introducono già al suo stile ipnotico (fatto di gessetti e incisioni su carta e onirici piani-sequenza, dove ogni figura muta e si tuffa nell’altra) e alla sua poetica, fra rievocazioni del periodo trascorso da bambino nell’Italia rurale e povera dei nonni (ma che agli occhi del piccolo Catani si caricava di mistero e magia) e sguardi non banali sul femminile.
Seguono, tra le altre cose, l’installazione La lupa (2006), creata per l’artista americana Kristin Jones, con i disegni in movimento proiettati sulle mura del Tevere a Roma, e corti come La testa tra le nuvole (2013), dove l’autore aggiorna la propria tecnica per rievocare i traumi vissuti ai tempi della scuola, riflettendo su repressione, discriminazione e omologazione nella società a partire dall’infanzia. Un tema che innerva anche la libera, visionaria e politica rilettura dell’archetipo collodiano ne Il burattino e la balena (2024), presentato all’81ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Abbiamo intervistato Catani approfondendo con lui ulteriori questioni.
Il suo primo corto, Il pesce rosso è anche singolarmente l’unico in cui sentiamo delle parole, che nei successivi lavori vengono meno per lasciare tutta la scena alle immagini e ai suoni non verbali. Come mai questa scelta?
Le parole non sono mai state il mio forte, mi sono sempre espresso attraverso le immagini, con quelle i trovo più a mio agio. Le parole nel Pesce rosso non sono le mie, sono state inserite a mia insaputa dal musicista, io non le avevo affatto previste. Ho iniziato a pensare al Pesce rosso immaginando di costruire una canzone, con una melodia, un jingle e un ritmo che si ripeteva, ma attraverso le immagini. Il movimento per me era la melodia. Quando mi sono ritrovato questo testo, perciò, all’inizio sono rimasto spiazzato, poi ho capito che funzionava perfettamente e ho accettato di intrecciarlo al film. Ma, appunto, non è nato da una mia iniziativa, finora non ho mai sentito l’esigenza di mettere il parlato dentro i miei cortometraggi.

Passando invece alle sue opere più recenti, fra La testa tra le nuvole e Il burattino e la balena, che sviluppano lo stesso tema, c’è Per tutta la vita, che invece ci presenta un soggetto diverso. Ci parla di questo corto?
Effettivamente si stacca dagli ultimi lavori, forse si ricollega un po’ di più a La funambola: il soggetto femminile è principale, centrale. Per tutta la vita ha il desiderio di raccontare non tanto la fine di un amore quanto la trasformazione dell’amore stesso, da un amore passionale giovanile a un amore maturo, che richiede altro. Ma soprattutto volevo narrare come sarebbe opportuno affrontare ogni storia amorosa, anche quando la storia finisce. Accettando questa fine col sorriso e ringraziando l’altra persona di esserci stata, per quel percorso fatto insieme. In un Paese, e in un’Europa, dove invece la chiusura di un rapporto è vissuta spesso come un trauma devastante, che porta a volte alla violenza, sentivo l’esigenza di raccontare la bellezza di un amore che anche quando finisce ci regala qualcosa.
Ne Il burattino e la balena c’è anche un riferimento esplicito al fascismo. Guardando al mondo della scuola oggi in Italia, vede il rischio di una deriva conformista e omologante?
Sì, ma non so quanto sia interna alla scuola. Credo sia più qualcosa di esterno, che poi entra dentro la scuola. Perché ritengo ci sia una “dittatura digitale” che sta modellando e trasformando le nostre menti. E in particolare quelle dei più giovani, che non hanno l’esperienza della noia, e quindi del fermarsi a pensare, a riflettere su sé stessi, o la capacità di concentrarsi su una pagina scritta o su un’immagine. La scuola in sé poi, per come l’ho vissuta io, ha avuto un grosso cambiamento, direi a partire dagli anni ’90, quando ha fatto ingresso un linguaggio economicista: infatti non c’è solo la dittatura digitale ma anche quella neoliberista. Come scriveva Anna Maria Ortese in Corpo celeste, “Il nazismo c’è ancora, ma è economico”. Un concetto che sposo pienamente. E quando il linguaggio economicista è entrato nella scuola, la scuola è cambiata. I presidi sono diventati manager, abbiamo i debiti e i crediti, abbiamo l’“utenza” anziché gli studenti. Questo è devastante. Poi è arrivata l’“alternanza scuola-lavoro”, che conta più della didattica, più della noia che c’è durante l’apprendimento. Ma quella noia è crescita.

Lei per i suoi film ha scelto, oltre alla tecnica dell’animazione, anche la forma breve del corto, che ha risentito a lungo di un certo pregiudizio rispetto al lungometraggio. Oggi secondo lei sta cambiando qualcosa?
Sicuramente stanno aumentando i festival e gli eventi che coinvolgono il cortometraggio, e questo è positivo. C’è una grande vivacità in questo ambiente. Quindi forse sì, è cambiato l’approccio. Ci sono dei cortometraggi meravigliosi, il cortometraggio ha una sintesi estrema della narrazione, che è potentissima. Nel lungometraggio a volte si può perdere la tensione del racconto, nel cortometraggio non c’è tempo per perdere la tensione, questo è meraviglioso.