I cospiratori sono tra noi, vivono come noi, potremmo essere anche noi, lo racconta Il complottista, l’esordio alla regia del giovanissimo Valerio Ferrara, con Fabrizio Rongione ed Antonella Attili, presentato ad Alice nella Città in concorso nella sezione Panorama Italia, in cui un barbiere della periferia romana tormenta i clienti ed i vicini con le sue teorie sulla società. Nessuno lo prende sul serio, e le cose peggiorano quando si convince che i lampioni per strada, spegnendosi ed accendendosi, mandano messaggi segreti attraverso il codice morse. Perderà tutto, famiglia, amici, parenti, finché non sarà arrestato dalla polizia e qualcosa cambia.
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Come nasce questa storia, Valerio?
Subito dopo il lockdown mi sono ritrovato letteralmente per sbaglio in una manifestazione di complottisti e mi sono reso conto di una cosa: non sono stigmatizzabili in un determinato range d’età, né per professione, tantomeno per orientamento politico o religioso. Chiunque può essere un cospiratore, e ne abbiamo avuta prova proprio durante la pandemia. Volevo raccontare questa aspetto di attualità, senza giudizio. Anzi, cercando di fare empatizzare lo spettatore con il protagonista.
Ti sei ispirato a qualche episodio reale?
Ho incontrato diversi complottisti, sia persone vicine che altre conosciute nel tempo. Alcune chicche del film sono frutto davvero di queste chiacchierate. Ho anche fatto molte ricerche sul tema. Più di tutto, mi sono messo nei panni del protagonista, che porta sul grande schermo la verità universale di un uomo che si sente solo ed emarginato, perché nessuno è disposto a capirlo, a dargli fiducia.
Quindi Il complottista racconta uno spaccato della nostra società, ma senza pregiudizi.
Non tratto il tema con superiorità, né voglio che qualcuno possa guardarlo in quest’ottica. Ci ho riflettuto molto, ed in pandemia a un certo punto ho messo in dubbio io stesso la mia capacità di orientarmi tra le disparate informazioni che ci arrivavano. Non era possibile il confronto con i professori, né con gli amici, l’unica possibilità era confrontarsi con lo smartphone.
Com’è stato l’approccio al tuo primo film, con un cast anagraficamente più grande di te?
Non ho mai immaginato di poter raccontare questa storia attraverso un coetaneo. Il mio protagonista doveva avere più o meno 50 anni, insomma, essere più vicino alla generazione di mio padre, perché è quella con meno dimestichezza con la tecnologia e, per questo, è più facile possa scivolare in qualche fake news credendola vera. Ho deciso di trattare un tema delicato ed inesplorato nella chiave della commedia, senza filtri e senza giudizi morali. Era facile sconfinare dalla realtà al grottesco, ma col tempo sono riuscito ad affinare la sceneggiatura e a produrre un film comico, verosimile.